Artemisia Gentileschi era nata l’8 luglio del 1593. Bella, ardita, versata oltre che nella pittura nella conversazione e nel canto, curiosa e spiritosa, si forma nella bottega del padre Orazio Lomi, di origini pisane,
“Finalmente parto, vado via da Roma! Questa città ormai non fa più per me, anche se qui è nata la mia arte, qui mio padre mi ha iniziato ai segreti della pittura, a come rendere la freschezza delle sete, la morbidezza dei velluti, il rosato degli incarnati e le proporzioni dei corpi. Però, mentre il mio corpo cresceva e con esso la mia arte, occhi lascivi mi seguivano nella mia stessa casa, entrando e uscendo a piacimento, senza ritegno, mentre mio padre era fuori per le sue committenze. Lui fece finta di essermi amico e maestro, mi stava accanto per insegnarmi la prospettiva e le divine proporzioni degli spazi, in cui eccelleva, ma non gli stava a cuore la mia educazione, benché fosse questo quello che diceva a mio padre: era il mio corpo che agognava, la mia giovinezza, la mia intraprendenza, non v’era nessun’altra donna a Roma che avesse la mia bravura. Di tutti i miei fratelli fui la sola a cui mio padre insegnò il suo meraviglioso mestiere. Aveva visto in me il sacro fuoco della creazione, ma era vedovo e in casa non c’erano donne con la sensibilità necessaria per vedere quel che non andava. I suoi ribaldi amici, bravi artisti ma uomini da poco dediti ai vizi più vari, frequentavano la nostra casa liberamente, e lui si beava della loro benevolenza senza accorgersi dei loro sguardi. Quando andava via dava incarico di vegliare su di me e sulla casa a una nostra vicina, Tuzia, ma anche lei era donna da poco e ben presto si fece ruffiana per Agostino Tassi. Ecco, questo è il suo nome, che le mie labbra non vogliono più pronunciare. Tuzia fece entrare nella mia casa anche Cosimo Quorli e Giovan Battista Stiattesi, e i tre ribaldi si giocarono la mia virtù, e fu il Tassi che ebbe la meglio.Era maggio, il 6 dell’anno 1611, uno dei mesi più belli a Roma. Le rondini erano già arrivate, l’aria era morbida e carica di profumi, e io dipingevo tutta presa dalla mia ispirazione; nell’anno precedente avevo realizzato il grande quadro di Susanna e i Vecchioni, che tutti aveva stupito per la maturità della composizione, la bellezza dei colori e il gesto di difesa di Susanna oppressa dalle minacce dei due vecchi. In fondo all’epoca avevo solo diciassette anni, ma non molti sapevano che il soggetto richiamava la mia vita, con questi uomini che nella mia stessa casa mi incalzavano con parole e gesti lascivi; speravo che la mia arte mi proteggesse, ma non bastò.Il Tassi entrò e mi tolse la tavolozza di mano, mi spinse nella camera, mi mise un ginocchio fra le cosce e mi alzò i panni, poi mi coprì la bocca con un fazzoletto perché non si udissero le mia grida e spinse, spinse forte dentro di me, senza che io potessi niente contro di lui. Quand’ebbe finito e mi lasciò tentai di ucciderlo con un coltello, ma non gli feci che un graffio, e lui allora promise di sposarmi, e io credetti alle sue parole. Ma poi si venne a sapere che a Livorno aveva ancora moglie e io mi sentii doppiamente raggirata. Allora mio padre Orazio, che all’inizio all’idea delle nozze riparatrici si era acquietato, decise di denunciarlo e ora, dopo tutto il chiasso che il processo ha fatto in tutta Roma, non mi resta che andarmene, qua l’aria mi soffoca e le bocche parlano, parlano…E’ dal febbraio del 1612 che a Roma si parla solo di me e della mia virtù, da quando mio padre denunciò il Tassi che fu tradotto nel carcere di Corte Savella dalle guardie pontificie, e della difesa e delle falsità di costui. La mia testimonianza fu messa in dubbio, la mia stessa virtù fu messa in dubbio, e mi si dipinse come “sfrenata”. Avemmo anche un confronto diretto, ma lui mentiva e mentiva, e allora io, che ero così sicura di quello che era successo, volli confermare i fatti descritti sotto tortura, e mai ebbi un brivido o un tentennamento mentre le cordicelle stringevano le mie dita sempre di più, sempre di più, le mie preziose dita!Feci bene, perché finalmente il 27 novembre l’infame fu condannato per deflorazione e corruzione e per il disonore portato alla famiglia; la pena fu di cinque anni di lavori forzati, oppure l’esilio da Roma. Chiaramente lui scelse l’esilio, ma io ormai non potevo più vivere qua, avevo sfidato tutti.Oggi, 10 dicembre del 1612, parto per Firenze. L’importante è non sentir più parlare di lui, non sentirmi osservata e giudicata mentre percorro le vie della città, non sentir dire: “Eccola, eccola, è l’Artemisia!” Via, via da Roma, dai lungoteveri, dai ricordi!Mio zio Aurelio Lomi mi introdurrà alla corte di Cosimo II de’ Medici, che è molto sensibile alle arti. La mia vita comincia oggi, e voglio che il mio nome sia ricordato solo per le mie opere e la mia eccellenza artistica. Niente voglio che mi leghi ancora al Tassi!”.

(Dipinto di Artemisia Gentileschi)
Artemisia Gentileschi era nata l’8 luglio del 1593. Bella, ardita, versata oltre che nella pittura nella conversazione e nel canto, curiosa e spiritosa, si forma nella bottega del padre Orazio Lomi, di origini pisane, che aveva assunto il cognome Gentileschi in onore di uno zio materno che l’aveva accolto a Roma. A Roma Orazio mantiene stretti rapporti con Caravaggio, dalla cui pittura deriva molto del suo stile, con pari, straordinaria capacità nella resa di stoffe e oggetti, unità però a una luminosità più fresca e chiara.
A tredici anni Artemisia collabora già con il padre, e a diciassette è già una pittrice affermata, con straordinarie capacità compositive e coloristiche.
Dopo il processo il padre la costringe a sposare per convenienza Pierantonio Stiattesi, con il quale parte per Firenze e dal quale in seguito ha quattro figli.
A Firenze entra ben presto nelle grazie di Cosimo II dei Medici, conosce Galileo Galilei con cui per anni avrà rapporti epistolari, e lavora alla decorazione delle stanze di Casa Buonarroti chiamata, unica donna, dal bisnipote Michelangelo Buonarroti il Giovane. A Firenze conosce Francesco Maria Maringhi, l’unico uomo che amerà. Tra le altre opere, dipinge L’allegoria dell’Inclinazione, La Conversione della Maddalena e Giuditta che decapita Oloferne.
Nel 1619, ormai acclamata, torna a Roma, dove dipinge una nuova versione di Susanna e i Vecchioni, La Maddalena Penitente, Il Ritratto di Gonfaloniere e Giuditta e la sua Ancella.
Nel 1630 si trasferisce a Napoli con due delle figlie. Di questo periodo sono Corisca e il satiro, Cristo e la Samaritana e Sansone e Dalida, e il successo è tale che deve avvalersi di numerosi collaboratori.
Nel 1635 prende contatti con la Corona Inglese, e tre anni dopo è a Londra, dove si ricongiunge al padre, che vi si era trasferito nel 1626. A questi anni è ascrivibile la celebre tela dell’Allegoria della pittura.
Nel 1640 Artemisia torna a Napoli, ma l’età e le condizioni di salute ne esauriscono lentamente la vena inventiva, finché nel 1654 muore e viene sepolta in San Giovanni dei Fiorentini.
Seguiranno secoli di oblio, finché la sua opera viene rivalutata dal grande critico Roberto Longhi che scrive di lei: “L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura e colore…”
Agostino Tassi non scontò mai la sua pena. Dopo pochissimi anni ritornò a Roma, dove lavorò per committenze illustri, e morì nel 1644.

(Dipinto di Artemisia Gentileschi)
