di ANDREA APPETITO – In un piccolo villaggio dell’Anatolia, a Uchisar in una locanda famigliare, ho imparato a guardare in silenzio.
C’è stato un momento della mia vita in cui ho viaggiato molto, fino a perdermi e a sentire che a ogni passo smarrivo una parola e che viaggiare vuol dire diventare muti. Avevo fatto tutto il possibile per dotarmi di un armamentario di parole e di concetti che mi sarebbero serviti per raccontare. Dal mondo intero, avrebbe detto Cendrars.
Immaginavo che sarei approdato infine nel paese dei Tarahumara e lì avrei sposato una giovane india. Qualcosa del genere è accaduto. Mi sono lasciato alle spalle tutto per ritrovarlo davanti a me, ma stavolta ero diventato così piccolo, senza parole e senza idee.
In un piccolo villaggio dell’Anatolia, nel viaggio più importante della mia vita, a Uchisar in una locanda famigliare, ho imparato a guardare l’altipiano, le nuvole, il cielo, in silenzio. Ho fatto un viaggio in una città sotterranea, un formicaio millenario in cui gli uomini vivevano per la paura di morire, esposti ogni giorno alle scorrerie dei predoni. Ho conosciuto i luoghi degli eremiti, le caverne le grotte gli alberi, le chiese con i volti cancellati dagli iconoclasti. E un giorno mi sono perso e ho scoperto nel bel mezzo del nulla assolato una piccola chiesa di pietra trasformata in una stalla. Era vuota, sono entrato ed ero così lontano da tutto, così vicino alla terra. Al tramonto entravo in un castello scavato nel tufo per vedere il sole sparire all’orizzonte. Una volta è accaduto così in fretta che all’improvviso è diventata notte e non riuscivo più a trovare la via d’uscita e a ogni passo rischiavo di sparire in un buco.
L’Anatolia era davvero quello che diceva Ermete Trismegisto: come fuori, dentro; come sopra, sotto. Quel paesaggio esteriore corrispondeva al mio paesaggio interiore. Potevo vederlo, viverlo, camminarlo. Un paesaggio pieno di buchi, arido, brullo, con cavità abbandonate da secoli, in cui risuona la voce di un uomo impaurito e vulnerabile.
Un giorno però ho scoperto in un vallone un giardino con alberi da frutto, viti e ulivi, sembrava l’eden in una pietraia arida e polverosa. Ero in cima a una rupe e non sapevo come scendere, così sono rimasto a guardarlo dall’alto. Allora ho trovato qualcosa di me che non si era inaridito, qualcosa che non mi apparteneva e che non mi apparterrà mai. Non ho più ritrovato nei viaggi successivi un posto del genere. Poi ho smesso di viaggiare. Ma quel posto per me non ha mai smesso di esistere.
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Andrea Appetitoè nato a Roma nel 1971 e insegna Filosofia e Storia in un liceo dei Castelli Romani. Scrittore con il romanzo “Tomàs” (2017), al quale segue “Vietato calpestare le rovine” (2019). Tra le sue opere “Cluster bomb” (2002), la partecipazione all’antologia di racconti su Roma “Allupa allupa” (2006), il testo teatrale “L’eredità” tradotto in portoghese e messo in scena a Rio de Janeiro (2006); ha realizzato con Christian Carmosino alcuni cortometraggi e il film-documentario “L’ora d’amore” (in concorso al III Festival Internazionale del Film di Roma, 2008), con Gianluca Solla ha scritto il breve saggio “Senza nome” (tradotto in spagnolo e pubblicato nell’edizione collettiva “Il impasse de lo politico, 2011); con Cosimo Calamini e Carmosino è autore della sceneggiatura “Emma e Maria” (finalista del Premio Solinas, 2014); è presente nell’antologia “Sorridi: siamo a Roma” (2016).