Antonio Fascetti, Michelangelo a Seravezza (olio su tavola)

Anno 1520, Michelangelo e la sua grande, inutile opera

Rimossi il muschio e i ciuffi di felci ed ecco apparire la grande iscrizione celebrativa dei lavori di inizio della strada: KOM AD IN 1567

Ricorderò per sempre quell’emozione, all’ora del tramonto, fortissima: lasciavo la strada sulla quale avevamo lavorato settimane; le studentesse italiane e straniere erano partite ed io ero rimasto solo; era l’ora di rientrare a Seravezza e, sapendo di non essere udito da orecchi umani, chiamavo Michelangelo: “Buonarroti, dammi una prova che questa è la tua strada!”. Ero triste perché nessun documento, non un’iscrizione, non un frammento di ceramica o una moneta avevamo trovato; soltanto le imponenti strutture di una via.

Nessuna traccia

La via era larga in alcuni punti fino ad otto metri, che dalla valle del Serra si incuneava nella valle del Carchio con una pendenza minima e costante e corredata di una straordinaria mulattiera che in prossimità del torrente Serra se ne distaccava per risalire alle cave, costruita per lunghi tratti con lastroni di pietra distaccati dalla spalla del monte e sovrapposti come carte da gioco; nelle muraglie di contenimento della massicciata stradale si aprivano sifoni per il passaggio dei rivoli e dei torrentelli; sulle opposte sponde del torrente Serra si fronteggiavano, imponenti, le spalle di un ponte. Il suo arco ad una luce era collassato; infine era venuta alla luce una grandiosa presa in blocchi di pietra, una sorta di scalino di ventisette metri, alto quattro metri, concepito per rompere l’impeto delle acque del torrente Carchio e difendere l’impianto viario dalla potenza distruttiva delle piene; non una traccia documentaria a provare che quella fosse la strada costruita da Michelangelo per ordine del papa Leone X.

Sulla via dell’Altissimo

Michelangelo Buonarroti, iscrizione celebrativa dei lavori di inizio della strada del Granduca

Ma, quando arrivai nel punto in cui il mio tracciato si inserisce sulla via dell’Altissimo, proprio lì, dove improvvisamente la dolce e costante pendenza che accompagna chi risale da Seravezza cessa e la via si impenna, come un cavallo imbizzarrito costringendoci, se si viaggia in macchina, a inserire la prima, proprio in quel punto che avevo proposto come l’inizio della via costruita per ordine di Cosimo I dei Medici per raggiungere i marmi dell’Altissimo, ecco l’ultimo raggio del sole illuminare una lettera dell’alfabeto tra i muschi che ricoprivano una parete di roccia tagliata a piccone: freneticamente rimossi il muschio e i ciuffi di felci ed ecco apparire la grande iscrizione celebrativa dei lavori di inizio della strada del Granduca: KOM AD IN 1567,  cominciata l’anno dell’Incarnazione del Signore 1565. Dai documenti sappiamo questa via si distaccava proprio dalla vecchia via che Michelangelo aveva costruita non per raggiungere il monte Altissimo, bensì per coltivare una cava posta in luogo detto Finochia; ed ecco, proprio dove termina la mulattiera di servizio troviamo l’unico toponimo di tutta l’area che si avvicina a questo citato nelle lettere del grande Michelangelo: Costa delle Finocchiaie. L’anno successivo riprendemmo i lavori e, ripulendo la strada dalla vegetazione e dai detriti, potemmo evidenziare come questa si spegnesse a un metro e mezzo sotto il livello della via dell’Altissimo: quando si era costruita la via per i marmi statuari ci si era distaccati dalla via di Michelangelo, abbandonando per sempre il tratto che non interessava più, ovvero quello da me ritrovato, che raggiungeva le pendici del Carchio.

La vetta del Carchio

Individuato il tracciato della via e il tracciato della mulattiera per gli spostamenti dei cavatori, la mia attenzione si rivolse alla vetta del Carchio. Lassù, un villaggio di casette di pietra riposa sul versante massese, ma l’area doveva essere inclusa nei confini dello Stato di Firenze: i marmi qui cavati venivano trasportati alla via di lizza attraverso una poderosa tagliata ricavata a piccone nella vetta del monte; al termine della tagliata, una volta arrivati versante “fiorentino”, uno scivolo parabolico costruito a grandi lastre di pietra li avrebbe accompagnati alla via di lizza; sarebbero stati quindi lizzati su tronchi di legno, tenuti a freno nella discesa con funi ancorate ai piri, fino al raggiungimento del caricatoio, ovvero fino all’inizio del percorso stradale dove li aspettava il carro trainato da buoi; infine, seguendo la dolce pendenza del tracciato viario, sarebbero scesi fino al ponte sul Serra, munito ai suoi due capi di ampi piazzali per far girare la carovana degli animali.

Le colonne destinate ai Medici

Serviva una larghezza straordinaria per questa manovra perché i carri dovevano trasportare non soltanto i blocchi ma anche imponenti e lunghe colonne destinate alla facciata del San Lorenzo, la chiesa di “famiglia” dei Medici. Il viaggio dei marmi avrebbe proseguito il suo cammino, una volta  passato il torrente Serra, avviandosi giù, a valle, fino a Seravezza e ancora,  attraverso la palude fino ad arrivare al mare. Proprio qui  Michelangelo, per attraversare gli acquitrini e le argille cedevoli, aveva affrontato una prova tanto ardua quanto quella che aveva dovuto sostenere nel misurarsi con le impervie e dure spalle rocciose dei monti.

Durante i lavori anche Michelangelo aveva rischiato la vita

Antonio Fascetti, Michelangelo a Seravezza (olio su tavola)

Nel 1520 l’opera, veramente titanica, era compiuta.  Sei furono le colonne “d’undici braccia e mezzo l’una” che vennero cavate, una era precipitata durante ed era finita in pezzi nel torrente; durante i lavori più volte Michelngelo aveva rischiato la vita e un cavatore era morto; le colonne riuscirono ad arrivare alla meta finale del viaggio via terra: il Forte dei Marmi. Da qui, via mare, in nave, i carichi sarebbero giunti fino a Pisa al Capocavallo che, come scoprii in una mappa antica del mio archivio, era situato nei pressi della via Santa Maria; questa gru serviva  per trasferirli sulle “scafe”, imbarcazioni trainate dagli alzaioli; da Pisa il viaggio sarebbe proseguito, via Arno, fino a Porto di Mezzo, il porto fluviale di Firenze presso la Lastra. Ma il viaggio delle colonne e dei marmi fu inutile, la facciata del San Lorenzo rimase senza alcun rivestimento marmoreo: il papa, abbandonando il capriccio della facciata, aveva concepito altri progetti e il nostro Michelangelo, nel suo cuore, conservò la tristezza di aver lavorato alla stregua di un galeotto, per ben due anni della sua vita ad un’opera ingegneristica straordinaria, che ne avrebbe dovuta generare un’altra, alla quale teneva tantissimo, la famosa facciata del San Lorenzo “la più bella opera che si sia mai fatta in Italia”; vide “morire” entrambe, come si vede seccare improvvisamente un albero del giardino al quale abbiamo dedicato le massime cure in attesa dei frutti.

Il prof. Piero Pierotti

Devo ringraziare il mio Prof. Piero Pierotti per avermi regalato questa straordinaria esperienza; ben conoscendo le mie attitudini di segugio, mi aveva ingaggiato per trovare sul territorio ciò che non si riusciva a far venire fuori dalla carte degli archivi. In pochi giorni avevo individuato la strada perduta; mesi più tardi ero di nuovo in azione, in pieno inverno, con gli operai della Comunità Montana per fare quel lavoro che per le povere forze di un gruppo di studentesse, per quanto agguerrite – sopratutto quelle tedesche – era titanico. Così tra un panino al lardo, un fiasco di lambrusco e tanti racconti, cadeva via via la cortina impenetrabile di scope e roveti e tornavano alla luce più di cinquecento di metri della via. Michelangelo poteva essere ben contento di vedere la sua grande opera ritrovata, ben studiata e illustrata in un libro curato dal Prof. Piero Pierotti: “La Valle dei marmi”, ed esaltata in una bella mostra. Non erano contenti però alcuni campanilisti locali che ci tenevano a difendere all’immagine dell’Altissimo come “monte di Michelangelo”: tutto il mondo ritiene ancora oggi che fosse proprio quello il Monte dal quale Michelangelo cavava i suoi marmi, ma a Michelangelo non serviva il marmo statuario di Tacca Bianca – l’aveva visto quel luminoso oro bianco e forse aveva sognato un giorno di liberare con il suo scalpello le forme stupende che ne sono prigioniere – in quel momento aveva bisogno del marmo bardiglio, venato, a grana più grossa, materia prima di un sogno che non si realizzò e che sarebbe un falso idiota se mai oggi si realizzasse, seppure in base ai disegni e al modello ligneo che ci rappresentano quale fosse l’idea del Divino Michelangelo.

Nota storica

Dopo aver acquisito al controllo di Firenze l’area dei Seravezza e di Cappella, papa Leone X Medici concepì l’ambizioso progetto di avviare la coltivazione dei bacini marmiferi di quell’area per affrancarsi dal mercato dei marmi del Ducato di Massa e Carrara dei duchi Malaspina.

L’area acquisita mancava sia di maestranze sia di infrastrutture, il progetto poteva sembrare folle: creare uno scalo sul mare, un percorso viario attraverso il Lago di Porta (così chiamato perché ancora oggi vi possiamo vedere, in stato di abbandono, la torre – porta di ingresso al Granducato) e, proseguendo fino ai giacimenti di Trambiserra, del Carchio e dell’Altissimo. Solo un uomo di straordinaria tenacia e di geniale intelligenza, il quale aveva già dato prova di riuscire nell’impossibile, come quando aveva ricavato il David da un marmo rovinato da un altro scultore, avrebbe potuto affrontare un’impresa per altri impossibile; ma a quell’uomo non interessava la vanagloria dei titoli e dei riconoscimenti, meno che mai interessavano i soldi; lo avrebbe mosso soltanto il fargli sognare un’impresa meravigliosa, come quella di dare una facciata marmorea alla basilica di San Lorenzo in Firenze in modo che un suo capolavoro, completasse il capolavoro di Filippo Brunelleschi. Qui, presso San Marco, la chiesa “di famiglia” dei Medici, Michelangelo era cresciuto; nel giardino del Palazzo Medici in via Larga aveva dato le prime prove del suo genio nel lavorare il marmo; alla basilica ha dato il gioiello della Sagrestia nuova, con le tombe di Giuliano e di Lorenzo e la Biblioteca Laurenziana. Ecco nel 1518 il Divino firmare il contratto che lo avrebbe impegnato alla realizzazione di un’opera nella quale forse nessun altro si sarebbe cimentato. Ed ecco il suo genio prodursi in uno sforzo tanto grande quanto inutile. Compiuta l’opera nel 1520, ricevette dal papa l’ordine di occuparsi d’altro.