Arturo Paoli il prete italiano in America Latina

Intervista di Giovanni Villani a Silvia Scatena, docente di Storia del Cristianesimo e curatrice di “Lettere dall’Argentina (1960-1969).

Silvia Scatena, docente di Storia del Cristianesimo all’Università di Modena e Reggio Emilia, nonché nota ricercatrice sulla Storia del Concilio Vaticano II, ha di recente pubblicato una raccolta di lettere di fratel Arturo Paoli “Approdo in America Latina. Lettere dall’Argentina (1960-1969) per conto di Morcelliana (Brescia). Una cospicua edizione di fonti e scritti del famoso religioso lucchese nel suo soggiorno argentino ai tempi del Concilio Vaticano II.  

Da chi le è arrivata la proposta di predisporre una ricerca su un prete così combattuto come Arturo Paoli?

Da diversi anni il Fondo Documentazione Arturo Paoli di Lucca, costituito nel 2005 per volontà dello stesso sacerdote lucchese, ha promosso un progetto di edizione di fonti e scritti del religioso lucchese; un progetto volto a contribuire a un necessario approfondimento della vita di don Arturo. Dopo la sua partenza dall’Italia nel 1954, il suo itinerario biografico resta in effetti un terreno inesplorato per la ricerca storica…

La sua figura, come la sua ricca personalità spirituale, restano così, per molti versi, un po’ancora molto condizionate dalle tante memorie personali – in molti ricordano così

il “proprio” Arturo… Anche per questo il Fondo Paoli ha cercato di incoraggiare esplorazioni e ricerche per una conoscenza storicamente fondata del lungo percorso di vita di don Arturo. Da qui la proposta, ormai diversi anni fa, di accostarmi al suo periodo “argentino”; per molti anni mi ero infatti occupata di storia del cristianesimo latinoamericano contemporaneo e potevo contare su diversi contatti oltreoceano, essenziali per orientarsi un po’ meglio in un contesto, ecclesiale, politico e in senso lato culturale, senza conoscere il quale con difficoltà si possono seguire i primi passi di Paoli nel continente dell’“esilio”, l’America Latina.

Prendendo poi poco a poco confidenza con le fonti disponibili o accessibili, è nato il progetto di un’edizione critica di un copioso campione di lettere da lui scritte in quegli anni ad oltre una ventina di destinatari. Scrisse tante lettere in quel tornante della sua vita, anche per “spezzare” la solitudine in cui si trovò “sbarcando” nel piccolo villaggio di Fortín Olmos, nel povero e periferico Nordest argentino, a 800 km da Buenos Aires…

Che esperienze ha vissuto Paoli in quegli anni Sessanta in America Latina?

Tante, tantissime… non è possibile sintetizzarle in poche parole. Davvero, per avere un’idea di cosa è stata la sua “immersione” nel continente latinoamericano, il complesso percorso, umano e spirituale, che nel giro di diversi anni lo ha portato a considerare l’America Latina da «terra dell’esilio», qual era effettivamente al suo arrivo, come la «patria del cuore», come ebbe a dire molti anni dopo. Invito a leggere le sue lettere… Esse restituiscono plasticamente l’esperienza di radicale isolamento vissuta al suo approdo nel Chaco di Santa Fe, ma, al tempo stesso, le nuove solidarietà che subito nascono con le poverissime famiglie dei boscaioli di quella regione (hacheros), quindi il suo progressivo inserimento nella composita costellazione del clero tercermundista argentino. Sono gli anni del concilio – di cui è assetato di notizie

che da Fortín Olmos stenta ad avere –, della conferenza di Medellín, gli anni di “incubazione” della teologia della liberazione, del ’68 studentesco ed ecclesiale…: anni particolarmente turbolenti in America Latina, e in modo particolare in Argentina, che da tempo versava in una situazione di forte instabilità politica, istituzionale, economica, legata alla pesante eredità lasciata dal peronismo e dalla sua caduta, gli anni, ancora, di un rinnovato protagonismo delle forze militare, anticamera della drammatica precipitazione della situazione del paese nel decennio successivo.

Arturo Paoli con il vescovo di Ivrea Bettazzi e il teologo Carlo Molari.

Come ha fatto a ricostruire un insieme di corrispondenza molto articolata e a distanza di oltre mezzo secolo?

Beh, mezzo secolo in una ricerca storica non è poi così tanto! È una bella distanza, perché già c’è uno scarto temporale che aiuta ad oggettivizzare molte cose, ma, al tempo stesso, è un tempo “liminare”, in cui ci sono ancora dei testimoni da interpellare, da ascoltare… Una buona parte della corrispondenza era poi ben custodita (e adesso inventariata) nel Fondo Documentazione Paoli di Lucca, altra corrispondenza ho potuto recuperarla in altri archivi, privati e pubblici: dopo quello lucchese il Fondo più significativo per la ricerca è stato senz’altro il Fondo Pio Roncoroni di Buenos Aires, dove ho potuto trovare le minute di molte lettere scritte da don Arturo quando si trovava nella capitale argentina e indirizzate ai destinatari più diversi: dai confratelli in Francia, a Giorgio La Pira, a Roger Schutz, per citare giusto alcuni nomi. La difficoltà maggiore è stata senz’altro “entrare” nel “piccolo” mondo di Fortín Olmos, capire chi erano tutte le persone menzionate nelle sue lettere, scritte sempre di corsa, nelle ore strappate al sonno, senza un tavolo o una scrivania, su fogli “volanti”… Per questo è stato essenziale l’aiuto di varie persone: ricordo, fra gli altri, quello di un’anziana signora di Fortín Olmos, Rita Verón, allora una giovane del villaggio del monte, che poté studiare a Reconquista – la sede della diocesi di nuova costituzione in cui si trovava Fortín Olmos – grazie all’aiuto dei Piccoli fratelli. Al di là dei nomi di persone più note della chiesa argentina che in qualche maniera già “conoscevo” – dal padre Mugica al vescovo Iriarte –, c’era infatti tutto un “mondo” di persone sconosciute da “identificare”… dai primi postulanti argentini ai membri di una rete di sostenitori del progetto cooperativo lanciato da don Arturo a favore della popolazione rurale del Chaco di Santa Fe… Anche l’aiuto di alcuni ex Piccoli fratelli del Vangelo è stato importante per lo studio di quel segmento importante della vita di Paoli: ricordo con particolare gratitudine quello di Héctor Artola, che ho potuto incontrare alla fine del 2018 e con cui parlammo per due intere giornate alla Sierra de los Padres… E poi certamente ci sono stati alcuni studi, per lo più argentini, che sono stati essenziali per orientarmi nell’inquieto contesto ecclesiale di quel paese negli anni delle inquiete turbolenze conciliari.

Da queste lettere emerge già una particolare spiritualità di Paoli?

Certo! Arturo Paoli arriva in Argentina nel pieno della maturità, a quarantasette anni; ha alle spalle già un lungo percorso e una personalità, anche spirituale ovviamente, ormai ben strutturata. Poi, indubbiamente, l’incontro e l’impatto con la realtà del continente latinoamericano in quel tornante decisivo della sua storia contribuiscono senz’altro al prender forma di nuove intuizioni e acquisizioni spirituali: intuizioni e acquisizioni di cui molte lettere consentono di seguire l’evoluzione, con tutta l’immediatezza della scrittura epistolare. Una scrittura sempre personale e spesso intima, che si situa per lo più su un piano squisitamente spirituale. In questo senso molte delle sue lettere sono un documento prezioso per cogliere, meglio che altrove, la centralità di una dimensione mistico-contemplativa del Piccolo fratello lucchese, che mi sembra costituire una componente fondamentale e strutturante della sua personalità

e della sua identità sacerdotale: un’identità che l’incontro con l’umanità povera di Fortín Olmos contribuisce a rendere sempre più avvertita della sostanziale “storicità” di ogni annuncio evangelico. «Le Seigneur nous parle par l’histoire» – «Il Signore ci parla attraverso la storia» -, scrisse Fratel Arturo in una lettera ai suoi confratelli…; questa è senz’altro una consapevolezza che era già latente in lui, ma che in America Latina diventa sempre più chiara.

Si può intravvedere dell’attualità fra il suo carteggio?

Nella misura in cui molte delle sue lettere restituiscono una genuina freschezza evangelica, sì, le sue missive sono senz’altro eloquenti per molti anche oggi. Al di là del preciso contesto storico ed ecclesiale in cui sono state scritte – la stagione del passaggio dal concilio alle incertezze del postconcilio nell’inquieto quadrante latinoamericano, e in particolare argentino, con tutte le “turbolenze” che lo caratterizzano, ciò che sta al cuore della ricerca umana e spirituale di don Arturo in quegli anni mantiene intatta tutta la sua capacità “parlante”: il dialogo con l’“Amico” nel serrato confronto con la storia – un dialogo ed un confronto da cui trova scaturigine l’«impegno terribile fra gli uomini», con l’umanità povera di Fortín Olmos in primis –  il difficile apprendistato dell’«abbandono» nel “deserto” dell’estremo Nordest argentino e nella rinuncia alla possibilità di poter pienamente dispiegare i propri doni di cultura, l’amore e la sofferenza per la chiesa, da parte della chiesa, l’obbedienza, ma, al tempo stesso la sottolineatura della necessità di un’obbedienza intellettualmente responsabile e «creativa»…

Paoli sarebbe ancora un prete “scomodo” con i tempi che corrono?

Purché “scomodo” non diventi, come talora accade, un’etichetta, probabilmente sì. C’è un’istanza di radicalità evangelica che lo abita, un’istanza di assoluto – non a caso è dalla gioventù un assiduo frequentatore della grande letteratura mistica spagnola – e un bisogno costitutivo di autenticità: «Il Signore non potrà chiedere tutto, ma mi chiede soprattutto di essere nella verità e di essere vero», scrisse in una lettera molto bella del 1968. Questo ha chiaramente dei prezzi, anche molto alti. Mario Rossi scrisse in un articolo su «Testimonianze» nel 1965 che Paoli restava un «polemista toscano nonostante l’abito del piccolo fratello», ma, al di là della “verve” toscana, il tema, cui accennavo, di una obbedienza nella chiesa – certamente anche molto, molto sofferta – resta sempre costante in lui. C’è una lettera, bellissima, all’amico Umberto Allegretti, scritta a pochi mesi dallo “sbarco” in Argentina, in cui don Arturo scrive che «per il quieto vivere abbiamo deturpato la virtù dell’obbedienza, che non è una virtù caccia-pensieri, ma è la ghiandola pineale della Chiesa che deve funzionare bene, perché la Chiesa cresca». Ecco, questo mi sembra il punto cruciale della sua riflessione in quegli anni argentini. Non c’è niente di “ideologico” nella sua scomodità; anzi, potremmo dire che, anche quando Paoli sembra sempre più affrancarsi da certi canoni e modelli della classica ascesi sacerdotale alimentandosi delle nuove sollecitazioni e consapevolezze, latinoamericane, resta sempre in lui una concezione per certi versi tradizionale del sacerdozio. La sua scomodità non è dunque mai riconducibile a certi diffusi leitmotiv del clero “contestatario” degli anni ‘60/’70, ma trova il suo innesco, al fondo, in una sorgiva esperienza di fede, talora di chiaro carattere mistico. In questo senso sì, questa “scomodità” non è allora legata ai tempi o al contesto, proprio perché l’origine si situa a un livello più profondo…

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