BONUS-COVID 600 euro – Ogni cittadino ha il diritto di accedere agli atti e alle informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni.
È la domanda che ogni studente spera che gli venga posta all’esame di diritto amministrativo: l’accesso agli atti delle pubbliche amministrazioni. Domanda facile, argomento che non nasconde insidie. Tutto si risolve in pochi articoli di una legge che risale al 1990, le cui modifiche, nel corso degli anni, sono state compiute allo scopo di dare maggior forza al principio della trasparenza amministrativa.
In parole brevi: ogni cittadino ha il diritto di accedere agli atti e alle informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni. Come? (E qui lo studente gongola).
È semplice: il cittadino rivolge all’amministrazione un’istanza, che deve essere evasa entro il termine dei successivi trenta giorni, consegnando gratuitamente la copia dei documenti richiesti. Vedete? Checché se ne pensi, anche le leggi italiane sanno essere chiare (a volte). E non sorprendetevi, la nostra democrazia è anche quella che disdegna il segreto e predilige la trasparenza, tant’è che ogni cittadino può, per legge, avere la copia degli atti e dei documenti che ritenga di voler conoscere, semplicemente richiedendole all’amministrazione.
Ogni ente pubblico è assoggettato all’obbligo di dare ostensione ai propri atti: i municipi, le province e le regioni, il catasto, le USL, i ministeri. Anche l’INPS. Ogni ente della pubblica amministrazione deve consentire l’accesso ai suoi atti, in modo incondizionato. È infatti ormai un dato (culturale e giuridico) assodato che, nei rapporti tra amministrazione e cittadini, l’accesso rappresenti la regola, il segreto, l’eccezione.
Vi sono, invero, alcune limitazioni al diritto di accesso; esse sono stabilite dalla legge e, in ragione della suddetta prevalenza della trasparenza sul segreto, hanno carattere eccezionale. Perché scrivo queste cose? Perché è di questi giorni la notizia che l’INPS ha stabilito di non consentire l’accesso agli atti da parte di coloro che hanno richiesto di conoscere quali amministratori pubblici abbiano richiesto e ottenuto la corresponsione del sostegno sociale Covid (di seicento euro mensili).
L’INPS, per non meglio chiarite ragioni di riservatezza in favore dei possibili beneficiari dell’aiuto economico, ha dichiarato il niet all’accesso: ergo, i cittadini non sono ammessi a sapere se i politici (ai quali hanno delegato l’amministrazione degli enti, o si accingono a farlo, in occasione delle prossime elezioni amministrative) abbiano beneficiato del sostegno dello Stato oppure no, e in ragione di quali presupposti economici.
La determinazione dell’Istituto di previdenza non persuade, per ragioni culturali e giuridiche.
Sotto il profilo del c.d. comune sentire, è oggi un dato di fatto quello che la gente (il popolo, ops) voglia conoscere ciò che caratterizza i politici in carriera (la loro professione e il loro reddito, non meno delle loro idee e dei loro progetti); così che, nel contemperamento del principio della riservatezza con quello della trasparenza, quando l’oggetto di indagine sia un amministratore pubblico il diritto di conoscerne la vita, le opere e le sostanze prevale su quello di garantirgli la medesima privacy riconosciuta al quisque de populo. Ed è giusto che sia così: chi svolge funzioni politiche ed istituzionali, deve necessariamente assoggettarsi ad una maggiore esposizione, e rendere conoscibile quel che altri (estranei alle ambizioni rappresentative del popolo elettore) potrebbero avere il diritto di mantenere riservato.
Ciò (mi) basta per dire che, nel caso della erogazione del beneficio finanziario Covid, l’INPS non può opporre al diritto di accesso alle informazioni, quello alla riservatezza di coloro che svolgano (o si candidino a svolgere) mandati politico-rappresentativi, perché la dimensione pubblica dell’eventuale beneficiario rende recessiva l’ambizione alla riservatezza dei suoi rapporti con lo Stato, ivi compreso quello in cui ne risulti beneficiario sotto il profilo delle agevolazioni retributive.
L’INPS quindi sbaglia nel blindare i suoi dati, la cui rilevanza non è solo personale (dei politici beneficiari della pubblica provvidenza) ma anche pubblica, perché è un interesse di tutti sapere chi, tra coloro che hanno politicamente stabilito la erogazione statale dei seicento euro, ne ha poi beneficiato in proprio.
A ciò aggiungo quanto segue, dal punto di vista giuridico. La legge indica quali siano le ipotesi in cui il diritto di accesso agli atti non possa trovare riconoscimento. Sono i casi dei dati c.d. sensibilissimi, la cui conoscenza – in un’ottica di contemperamento degli opposti interessi – provocherebbe effetti lesivi ingiusti ai danni del titolare (o del beneficiario) degli atti di cui si richiede l’ostensione.
Inutile dire che tra le deroghe al diritto incondizionato all’accesso agli atti non vi è quella relativa al conseguimento dei benefici finanziari pubblici. E sorprende quindi che l’INPS abbia voluto individuare una eccezione alla regola della trasparenza nella falsa segretezza di dati ordinari, i quali, siccome riferiti a politici e pubblici amministratori, più che mai devono ritenersi assoggettati alla accessibilità. Peraltro, la premura dell’Istituto previdenziale, invece di dare luogo ad un diniego, avrebbe dovuto limitarsi a dare applicazione alla legge. Essa prevede che quando le istanze di accesso riguardino atti e fatti che si riferiscano a soggetti specifici, l’amministrazione, prima di rilasciare le copie, debba avvisarli per consentire loro di formalizzare eventuali ragioni di riservatezza che giustifichino il diniego alla diffusione dei dati che li riguardano. Solo nel caso della fondatezza delle suddette ragioni di segretezza l’amministrazione può respingere l’istanza di accesso agli atti, con un provvedimento motivato (impugnabile davanti al TAR).
Nella specie, l’INPS ha fatto tutto da sé: pur in mancanza di una previsione normativa che riconosca la loro inaccessibilità, ha dichiarato di non voler comunicare i dati relativi alla elargizione dei benefici Covid a favore di politici e amministratori, senza nemmeno disturbarli per sapere se effettivamente vi sono ragioni di riservatezza da tutelare, con buona pace del principio sia della trasparenza di ogni azione amministrativa, sia della recessività della riservatezza rispetto al diritto di accesso agli atti delle pubbliche amministrazioni.
Mi viene da dire, speriamo che l’INPS, re melius perpensa, in ossequio alla sua funzione istituzionale e di somma imparzialità, riveda la sua annunciata determinazione. Ma così non sarà. Quindi, siccome la questione involge il tema della effettiva democraticità del sistema burocratico del Paese, quello della concreta trasparenza dell’agere publicum, e, infine, quello della piena conoscenza e conoscibilità di coloro che ci amministrano o si candidano ad amministrarci, spero anche un’altra cosa: che nuove ed altre istanze di accesso agli atti vengano rivolte numerose all’INPS, nelle sedi provinciali di competenza (quelle ove hanno la residenza i soggetti eventuali beneficiari delle provvidenze Covid) e che, nel caso della conferma del diniego voluto dall’Istituto centrale, sia data la parola alla giustizia amministrativa, non solo per avere contezza di quanto è legittimo voler sapere, ma anche a tutela di una trasparenza amministrativa effettiva e sistematica, che è un presidio di democraticità che è bene difendere.
(foto: jessica45 – licenza pixabay https://pixabay.com/it/photos/signora-giustizia-legale-legge-2388500/ )
Giancarlo Altavilla è avvocato amministrativista, cassazionista, professore a contratto all’Università di Pisa