di ALDO BELLI – Intervista al baritono Bruno de Simone: “Se con la cultura non si mangia, con l’ignoranza si rischia seriamente di morire”
Bruno de Simone, Napoli 1957. Liceo classico all’Umberto I e Giurisprudenza alla Federico II , una carriera mancata da avvocato. Nel palazzo d’epoca di via Crispi dove vive la famiglia de Simone – il padre è medico, la madre casalinga – lo studio del Canto prende presto il sopravvento. Un figlio baritono non era nelle previsioni; l’educazione familiare, tuttavia, non doveva essere del tutto indifferente alle predisposizioni naturali se un giorno i genitori acconsentirono alle insistenze degli amici e il giovane Bruno conquistò, nel salotto di casa, la sua prima audizione di fronte ad Alfredo Kraus – il tenore spagnolo si trovava in città. La professoressa Marika Rizzo gli dava lezioni private, fu lei ad accompagnarlo fino al Concorso di Spoleto, 1980, data fatidica poiché lì ebbe inizio il sodalizio che lo accompagnerà per oltre vent’anni: Sesto Bruscantini faceva parte della commissione giudicatrice e dopo averlo ascoltato, praticamente lo adottò. Il Maestro gl’insegnò “tutto quello che so”, e quanto fosse “fondamentale che gli artisti si dedicassero agli altri”. A Spoleto incontra Alessandra Rossi, protagonista insieme a lui nel “Faust” di Gounod, opera del debutto, che divenne poi sua moglie.
Fin dall’inizio della nostra conversazione, ho pensato che il Maestro de Simone seguisse questo filo conduttore. La sua attenzione, infatti, è rivolta attualmente al malessere che annichilisce il grande palcoscenico della Lirica in Italia; la linearità del ragionamento cela solo apparentemente il fiume in piena di una collera gentile: non per sé, giacché la sua carriera internazionale non ha più bisogno di riconoscimenti, quanto per chi oggi ambisce a proseguire la scia luminosa che attraverso tre secoli ha esportato la cultura lirica italiana nel mondo.
Maestro, da dove vogliamo cominciare?
Ho visto e vissuto il teatro d’opera per quarant’anni, ho assistito quindi a tutti i cambiamenti e alle ultime precipitazioni di qualità, di etica, e sento che rispetto all’esigenza crescente di solidarietà si sta invece consolidando il suo nemico più diretto, l’omertà. Io sono ancora in ordine dal punto di vista vocale, tecnico e artistico: ne è testimone il “Gianni Schicchi” che ho cantato poco prima della pandemia al Maggio Musicale Fiorentino. Quindi, non è certo per me che sono preoccupato.
Da dove nasce, secondo lei, questa precipitazione?
Dal momento in cui lo Stato ha deciso che la Lirica non era più un bene primario, con la trasformazione degli Enti Lirici in Fondazioni Liriche di diritto privato. Aggiungo poi che nonostante ciò, considerare privati degli enti che vivono pressoché totalmente dei contributi pubblici dello Stato è un controsenso; come non è giustificabile avere sommato 500 milioni di euro di debiti consolidati al di fuori di un controllo dello Stato.
Intende dire che a monte dell’attuale disastro ci sono dei princìpi, prima ancora che delle regole?
In Spagna, che ho molto frequentato, la lirica è considerata un bene primario. In Germania con i contributi pubblici non si scherza. In Italia pare tutto possibile…
La soluzione, quindi, è ritornare agli Enti Lirici?
Per certe soluzioni le visioni politiche differenti devono lasciare il posto, ove ce ne fosse, al buon senso. La gestione pubblica garantisce, per principio, la trasparenza; e se non la garantisce consente almeno di poterla pretendere. I bandi pubblici per ricoprire i ruoli apicali hanno maggiore capacità di premiare le competenze e i meriti.
Francamente, vedendo l’allegria con la quale viene gestito il denaro pubblico in Italia, avrei qualche dubbio.
Questo dipende da tutti, non solo da chi gestisce male, ma anche da chi fa le nomine e da chi consente che regni uno stato di impunità permanente. Il fatto cha a luglio, ad esempio, nonostante tutti i sintomi resi evidenti dalla pandemia, non sia stata presa la decisione di costituire una task-force per la cultura la dice lunga: ricordo un ministro che alcuni anni fa esordì dicendo che con la cultura non si mangia: certo è che se con la cultura non si mangia, con l’ignoranza si rischia seriamente di morire.
Tornare agli Enti Lirici significa riaffermare il ruolo della cultura come bene primario del Paese, e partendo da questo principio fare discendere regole e comportamenti che corrispondano alla corretta gestione di un bene tanto prezioso. Credo molto nel concetto crociano dell’arte, la musica e la Lirica costituiscono l’elevazione degli animi, sono un canto di liberazione e di libertà. Se questo è vero, allora dobbiamo fare crescere una coscienza nuova nel Paese che è prima di tutto responsabilità nei confronti dei giovani: collettiva sì, ma anche di ciascuno.
Tra i preziosi insegnamenti del mio Maestro Sesto Bruscantini, ci fu anche il dovere etico di trasmettere ciò che si è ricevuto. Questa significa per me l’insegnamento. Io ho avuto il privilegio di essere giudicato da grandissimi artisti, ricordo uno dei miei primi concorsi con Mario Del Monaco in giuria: per me era un mito assoluto, l’avevo visto dal vivo in ben 7 ruoli al San Carlo di Napoli; poi ho conosciuto Giuseppe Di Stefano in un altro concorso; ho cantato con la gran parte dei maggiori interpreti della nostra epoca. Ecco, mi rammarico che tutte queste esperienze estremamente formative, che io ho potuto vivere, non siano replicabili per chi è giovane oggi. E’ importante essere valutati prima di iniziare la carriera artistica, io ho vinto 5 concorsi di canto: allora c’era gente che era in grado di giudicare. Il calo di qualità deriva anche da una regressione generale delle competenze che si riflette sulla formazione artistica. A questi giovani che studiano – cantanti, musicisti, direttori d’orchestra, registi – dobbiamo poi fare intravedere uno sbocco concreto di lavoro che ripaghi i loro sacrifici e la loro passione.
E’ una domanda che ho ripetuto in queste settimane, e la rivolgo anche a lei. Perché in Italia i lavoratori dello Spettacolo non hanno reagito come i metalmeccanici nella difesa dei diritti del lavoro?
Le reazioni ci sono state, anche se flebili, ma è mancato l’ascolto. È indiscutibile che il declino del sistema della Lirica sia anche una nostra responsabilità. Riprendendo l’esempio dalla Spagna, proprio alla luce degli effetti provocati dal Coronavirus, nel marzo scorso hanno iniziato a porsi il problema della coesione sociale anche sul piano della rappresentanza giuridica, che può essere espressa solo sindacalmente. Dobbiamo tutti riconoscere che fino ad oggi ciascuno ha pensato solo al proprio orticello: si sa che un artista tende principalmente a pensare alla propria preparazione, alla performance, o a sentirsi un privilegiato una volta che è arrivato. Ma adesso questi privilegi si sono molto ridimensionati. Allora – al di là di ogni recriminazione di categoria – quale occasione migliore per capire che siamo tutti sulla stessa barca? e che il gap tra lavoratori autonomi e dipendenti dello Spettacolo si sia molto assottigliato? Quale occasione migliore per unirci e capire quali sono le nostre esigenze e come muoversi? E quando dico l’unione di coloro che vivono nel mondo della Lirica, mi riferisco a tutti, non solo agli artisti: compreso tecnici, elettricisti, macchinisti, truccatori, attrezzisti, sarte… Tutti abbiamo uno scopo comune: la difesa dei Teatri.
Questa sua lettura delle forze in campo si sta facendo largo ultimamente, anche se noto il passo pesante. Il Potere, se mi concede la sintesi, ha più interesse a non avere interlocutori coesi.
Il “divide et impera” fu il principio guida che fece crollare già l’Impero Romano, prima quello d’Occidente e poi quello d’Oriente: l’unione è l’unica arma che da sempre è esistita per difendere ogni diritto.
E’ un po’ come l’ignoranza di cui lei parlava.
L’Italia è molto arretrata rispetto al contesto europeo. Non è più rinviabile una riforma dello spettacolo dal vivo, in particolare del settore della Lirica, sulla quale dovrebbe realizzarsi un consenso politico trasversale. La riforma, tuttavia, dovrebbe riguardare anche l’istruzione: se noi vediamo le nostre orchestre sempre più affollate da musicisti dell’Est europeo, come di altri continenti, è anche perché altrove – a differenza dell’Italia – l’educazione musicale viene considerata una materia d’istruzione fin dalla prima età scolare, mentre da noi, quando c’è, vale alla pari di un’ora di ricreazione. Ho avuto occasione di sentire molti giovani dire: mi piace l’Opera, ma non riesco a capire le parole. Ed è vero, purtroppo. Il problema non è solo la mancanza di un’educazione scolastica all’ascolto della musica “colta”… Che poi colta non è il termine giusto. Esiste pure un problema di formazione artistica: se prendiamo un disco in vinile di cinquant’anni fa, anche quando cantava l’ultimo dei comprimari si capiva perfettamente la dizione, in quanto allora nei conservatori e nelle accademie si studiava la fonetica, l’ortoepia.
A lei piace lo streaming?
Le rispondo in modo solo apparentemente fuorviante: il FIS (Fondo Integrazione Salariale dello Spettacolo) utilizzato in questo momento dai Teatri, rischia di essere l’anticamera dei licenziamenti. Se in un Paese si considera la cultura un peso, anche i musicisti diventano un peso e dunque inutili. Lo streaming può essere una soluzione temporanea per fronteggiare l’attuale situazione straordinaria: se venisse considerato la normalità sarebbe una iattura, e così si perderebbe il carburante fondamentale dello spettacolo dal vivo che è il rapporto tra l’esecutore e il pubblico. Mi conceda la boutade: vedere in TV “Cavalleria rusticana” senza scene, costumi e pubblico, è come seguire un film di 007 alla radio.
Chiaro che il Web, viceversa, può essere un mezzo utile – se ben utilizzato – anche nel nostro settore. Sono stato invitato a partecipare come giurato ad un concorso on line, primo nel suo genere, ideato e organizzato da Fiorenza Cedolins che ha creato una giuria di sessanta esperti, tra sovrintendenti, cantanti, registi, giornalisti del settore… di tutta Europa. Tenendo presente che anche nelle audizioni i giovani sono i più penalizzati, per ovvie ragioni. So di giovani artisti che versano in gravi difficoltà economiche, e addirittura in casi estremi vengono accompagnati alla Caritas per mangiare.
Questo concorso on line mira ad agevolare la loro esibizione con la rassicurazione di un giudizio autorevole con una giuria così ampia. Mi capita spesso durante l’anno di ascoltare giovani interpreti e le garantisco che vi sono eccellenti talenti: si tratterebbe solo di avviarli con le giuste competenze e di liberarli dalla frustrazione del futuro. Se un Paese non è in grado di aprire le porte alle proprie risorse, che Paese è? E se la nostra generazione della Lirica italiana non sarà in grado di avere chi le succederà, cosa rimarrà di noi?
(foto: Bruno de Simone – https://www.brunodesimone.it/photogallery/ )