L’avvocato Giannini fa il punto sul divieto di licenziamento introdotto dai decreti sull’emergenza: neppure il Covid è riuscito a portare buon senso
Divieto di licenziamento fino al 17 agosto prossimo. È questa una delle misure introdotte dal Decreto Legge Rilancio (che ha esteso il termine introdotto dal Decreto Cura Italia a partire dal 17 marzo). Si tratta di un unicum nella Storia Repubblicana: mai dopo il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 e la promulgazione della Costituzione del 1948 era stato introdotto un blocco ai licenziamenti della durata di 5 mesi, essendo unico precedente il divieto introdotto in tempo di guerra con il Decreto Legislativo Luogotenenziale del 21 agosto 1945.
Dubbio di costituzionalità
Il divieto di licenziamento così introdotto – tenuto conto della sua estensione temporale e “qualitativa” – suscita perplessità in merito alla compatibilità con il principio stabilito all’art. 41 della Costituzione che tutela la libertà di impresa, ed anche a livello sistematico rispetto agli ammortizzatori sociali introdotti con gli stessi Decreti Cura Italia e Rilancio. Vediamo nel dettaglio.
Più che una norma, un pasticcio d’improvvisazione
Il divieto di licenziamento si applica a tutti i datori di lavoro pubblici e privati, a prescindere dal numero di dipendenti occupati e riguarda tutti i licenziamenti, individuali o collettivi, fondati su ragioni di carattere economico, tecnico-produttivo o organizzativo.
Sono escluse poche marginali ipotesi tra cui il licenziamento dei dirigenti.
Per spiegare le disfunzioni di un così esteso divieto basti considerare che un imprenditore – quale che sia la dimensione dell’impresa e il settore produttivo – che decida di cessare l’attività aziendale per uno stato di crisi conclamato, magari antecedente all’emergenza Covid, non potrà licenziare fino al 17 agosto (e si pensi, che per “cessazione dell’attività aziendale” è possibile licenziare le lavoratrici madri nel periodo di protezione) non essendoci alcun meccanismo che colleghi il divieto di licenziamento, ad esempio, alla situazione emergenziale scaturita dalla diffusione del Covid o alla fruizione degli ammortizzatori sociali introdotti dal Governo. Diverso, infatti, sarebbe stato il caso in cui il divieto di licenziamento fosse stato imposto a quei datori di lavoro che hanno fruito e fruiranno degli ammortizzatori sociali e che quindi sono stati sollevati dal costo del lavoro. Il che spiegherebbe anche l’esenzione del divieto per il licenziamento dei dirigenti, notoriamente esclusi dalla platea dei beneficiari degli ammortizzatori sociali.
Datori di lavoro e imprese senza bussola
Il divieto di licenziamento inoltre, non è raccordato con gli ammortizzatori introdotti dal Governo: gli ammortizzatori hanno infatti una durata massima di 14 settimane (9 settimane + 5 ulteriori settimane previste dal Decreto Rilancio) quindi, per i datori di lavoro che hanno iniziato ad usarli da fine febbraio, scadranno a metà giugno mentre il divieto di licenziamento dura fino al 17 agosto. Potrebbe quindi venirsi a creare uno scenario in cui i datori di lavoro non possono utilizzare gli ammortizzatori né possono licenziare i dipendenti: al datore di lavoro non resterebbe che sospendere i dipendenti per impossibilità sopravvenuta allo svolgimento della mansione senza decorrenza della retribuzione ma dimostrare l’impossibilità sopravvenuta totale non sarà affatto agevole, nel caso, ad esempio, di lavoratori con profili fungibili e mansioni promiscue e magari in un contesto in cui parte dell’azienda continua a lavorare in c.d. smart working.
Se è vero che INPS, con un recente messaggio, ha chiarito che anche in caso di licenziamento intimato nel periodo del divieto, i lavorati hanno diritto alla NASPI resta in ogni caso l’interrogativo sul destino di datori di lavoro e lavoratori nel periodo compreso tra l’esaurimento degli ammortizzatori sociali e il termine del blocco dei licenziamenti. A complicare ulteriormente il quadro c’è poi l’oscura – e francamente incomprensibile – norma introdotta dal Decreto Liquidità che prevede che le società che intenderanno beneficiare dei finanziamenti garantiti in tutto o in parte dallo Stato (tramite la Sace S.p.A.) si assumono l’impegno di “gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”. Per tali società, anche una volta venuto meno il divieto di licenziamenti, intimare un recesso non sarebbe affatto agevole pena vedersi revocare le misure a sostegno della liquidità.
In conclusione, se la situazione di emergenza generata dalla diffusione del Covid richiede l’adozione di misure straordinarie, l’efficacia di tali misure non può che passare da una regolamentazione chiara ed efficiente che tuteli, al contempo, le ragioni dell’impresa e del mondo del lavoro.
