In ogni ente pubblico una commissione ispettiva dovrebbe accertare quale sia stato il lavoro concretamente prestato nei mesi della pandemia
Non ricordo più quale filosofo scrisse ‘tutte le generalizzazioni sono sbagliate: anche questa’. È un motto che mi rimase impresso perché, in effetti, le cose umane sono sempre così sfaccettate che raramente una affermazione generale non trova le sue eccezioni.
È una generalizzazione piena di eccezioni, per esempio, quella degli ‘italiani brava gente’, ed è una generalizzazione ampiamente confutata (purtroppo) che ‘chi beve birra campa cent’anni’. Non è una generalizzazione piena di eccezioni ma una ontologica sciocchezza quella che i meridionali d’Italia sono mafiosi. E quella che i dipendenti pubblici sono dei vagabondi cos’è? È la verità, o una generalizzazione perciò sbagliata? Io penso sia una generalizzazione e che il numero di eccezioni che la confuta sia robusto.
Ma non è che ciò che non sia generalizzabile non esiste e non possa avere una significativa consistenza. Quel che non riguarda tutti non è detto che non coinvolga tantissimi e sia perciò un fatto, un fenomeno o un dato da considerare e su cui riflettere.
Vediamo.
Nella primavera di quest’anno infausto abbiamo scoperto il lavoro agile (per intendersi, quello che si fa a casa, con un’efficienza garantita soprattutto dal nome esotico della prestazione: smart working). Più di tutti l’hanno scoperto i lavoratori del pubblico impiego (fatta eccezione – eccoci – per quelli della sanità, chiamati ad una presenza non solo fisica sul posto di lavoro ma anche più rischiosa e greve del consueto).
Per ragioni epidemiologiche, nel mese di marzo lo Stato ha disposto la chiusura di quasi tutti i luoghi in cui gli italiani si dedicano alle arti e ai mestieri e invece, nei confronti del comparto del pubblico impiego, ha stabilito che le prestazioni dei lavoratori di ogni ordine e grado dovessero essere non già interrotte ma eseguite regolarmente, da casa, in modalità esotica.
I bar, i ristoranti, gli alberghi, hanno chiuso; i parrucchieri, gli estetisti, gli attori e i cantanti, hanno interrotto le loro attività, i negozi hanno abbassato le saracinesche e l’Italia è piombata in un inedito coprifuoco h24.
Anche gli uffici pubblici sono stati chiusi, ma solo apparentemente. Il cuore pulsante della ciclopica macchina amministrativa ha infatti continuato a battere imperterrito nelle dimore di ogni lavoratore del pubblico impiego, che, magari in pigiama e pantofole, come nulla fosse, ha dato pieno e indefesso adempimento alle sue mansioni, riempiendo l’etere nazionale di atti, provvedimenti e relazioni che hanno garantito il soddisfacimento dei bisogni tutti dell’utenza costretta al coprifuoco.
E lo Stato, perciò, mentre ai lavoratori altri ha promesso una futura, possibile cassa integrazione (alla quale i cittadini hanno creduto più delle banche, che non hanno voluto anticipare nemmeno una lira di quanto lo Stato avrebbe poi rimborsato loro), ai suoi dipendenti impegnati nei lavori domestici (nel senso di svolti a casa) ha garantito il pagamento degli stipendi, degli straordinari e anche la corresponsione dei buoni pasto.
Insomma, un’organizzazione perfetta, nella quale la disparità di trattamento (retributivo) tra lavoratori pubblici e privati ha trovato la sua spiegazione blindata: i primi, hanno continuato a lavorare, i secondi, no.
Mentre le case dei baristi, dei parrucchieri, degli estetisti, ecc. sono state il teatro del loro riposo (sì, certo, coatto, preoccupato, ma sempre riposo era), quelle dei lavoratori pubblici sono divenute centrali produttive di elaborazione e spedizione telematica di ogni ben di Dio: atti, bandi di concorso, permessi di costruire, concessioni demaniali, accatastamenti, e via così.
Ma veramente? Macché.
Sia perdonata la generalizzazione, ma, in realtà, il pubblico impiego italico si è fermato tanto quanto ogni altra cosa. Gli uffici pubblici sono stati chiusi e il loro insediamento nelle dimore dei lavoratori è una diffusa presa in giro. Chiunque abbia avuto modo e ragione per richiedere qualsivoglia prestazione da parte negli enti erariali se n’è accorto. I telefoni hanno suonato a vuoto e i trasferimenti di chiamata presso gli uffici casalinghi sono stati rari e numericamente insignificanti. Le riunioni telematiche (efficacemente utilizzate nel comparto della formazione) si sono rivelate tecnologicamente pigre, ostracizzate, a volte impossibili.
Ah, e i pagamenti (ovvero gli adempimenti nei confronti dei creditori) sono stati omessi. I procedimenti amministrativi sono stati interrotti e gli atti attesi dai cittadini tuttora viaggiano nell’etere, in attesa di approdare nel mondo reale. Potrei continuare, ma invece mi fermo qui.
E tralascio gli accadimenti nei tribunali, nei quali la povertà di sempre, dei mezzi e degli ambienti, è stata contraddetta da un nuovo lusso: quello delle udienze, poche per pochi (in effetti, così sono i lussi).
E se invece mi sbaglio e la mia generalizzazione risultasse la più sbagliata di sempre? In fin dei conti la propria esperienza e quella del proprio piccolo mondo intorno non è detto che abbia un valore statistico o ermeneutico. La risposta alla incertezza del mio discorrere potrebbe esserci, nell’interesse nazionale di fugare il fastidioso e diffuso cliché dei lavoratori pubblici vagabondi.
Ogni ente pubblico dovrebbe nominare una commissione d’indagine e ispettiva, incaricandola di accertare, ufficio per ufficio, quale sia stata l’attività (concretamente) prestata nei mesi della pandemia, quale sia stata la produttività dei dirigenti, dei funzionari e degli impiegati, e l’efficienza dei lavori domestici.
Mica per punire gli eventuali vagabondi; no, no. Solo per sapere. Tenendo conto che, a quanto pare, la stragrande maggioranza dei lavoratori pubblici non intende smantellare i propri uffici casalinghi, ma vuol continuare a produrre da casa almeno fino al prossimo dicembre.
In vista di tale evenienza (e per conoscere cosa sia accaduto in questi mesi negli interna corporis delle dimore impiegatizie), sapere se lavorare in salotto funziona, credo sia irrinunciabile e rappresenti una risposta alla quale i cittadini italiani (quelli in attesa della cassa integrazione e quelli – e sono tanti – lasciati senza nemmeno la promessa di un aiuto) abbiano non solo diritto, ma bisogno, per poter dire, come nelle migliori pubblicità RAI, ‘insieme ce l’abbiamo fatta’, e non, mestamente, insieme ce l’avremmo potuta fare.
(foto: congerdesign – licenza pixabay https://pixabay.com/it/photos/caff%C3%A8-tazza-di-caff%C3%A8-torta-842020/ )

Giancarlo Altavilla è avvocato amministrativista, cassazionista, professore a contratto all’Università di Pisa