Il bambino conteso contro la sua volontà

di DANIELA LUCATTI – L’alienazione parentale fa ancora da padrona, il problema dei diritti del minore, la responsabilità di chi giudica.

L’alienazione parentale fa ancora da padrona. Di nuovo donne e minori ostaggio delle istituzioni dalle quali dovrebbero essere difesi/e e dalle quali invece si trovano doppiamente abusati/e; una vergogna che sembra non avere fine, che vede dimenticato non solo il minimo senso di umanità ma, anche e soprattutto, tutto ciò che la società civile, nel tempo, ha strutturato in materia legislativa e in linee ed orientamenti per fronteggiare sia la violenza di genere e nello specifico domestica, che i diritti dei bambini e delle bambine, nonché il fenomeno della vittimizzazione secondaria.

L’ultimo episodio sta accadendo adesso e interessa il tribunale di Pisa. Un bambino sta per essere allontanato con la forza dalla madre con la quale ha sempre vissuto per essere portato, contro la sua volontà, in Sicilia per vivere con il padre in un luogo dove non ha mai abitato, lontano da tutto ciò che ha fino ad oggi fatto parte della sua vita e soprattutto lontano dalla madre che lo ha cresciuto

Il Bambino in questione, nonostante molteplici incontri protetti, si rifiutava di voler vedere il padre. Siamo di nuovo nella situazione drammatica di sempre: quella cioè, che vede la prole portatrice non del diritto di poter avere i propri genitori, bensì del dovere di frequentarli per forza, anche quando questi sono evidentemente e ripetutamente rifiutati.

Non ci si ferma a capire perché questo accade, alle cause sottostanti, non si ascoltano davvero le bambine/i , si ignora in modo incomprensibile il trauma causato dall’aver subito violenza assistita, si dà per scontato che se il padre viene rifiutato è sicuramente colpa della madre che li manipola per bieche finalità quali la vendetta, il possesso o altro. Si ignora la convenzione di Istambul (ratificata dall’Italia con la legge n.77/2013) in materia di separazioni con violenza , si ignorano i basilari diritti dei minori recitati dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 alla quale si riferisce sempre l’Unicef e ratificata dall’Italia con la Legge 176 del 27 maggio 1991. Tra i quattro principi più importanti vi troviamo il superiore interesse. art.3: in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l’interesse del bambino/a adolescente deve avere la priorità. Ascolto delle opinioni del minore (art.12) prevede il diritto dei bambini ad essere ascoltati in tutti i processi decisionali che li riguardano, e il corrispondente dovere per gli adulti, di tenere in adeguata considerazione le opinioni.

Se poi pensiamo a quanto tempo è servito e a quante madri e figlie/i sono stati rovinati dalla PAS, sindrome di alienazione parentale, e a quante lotte sono servite perché fosse finalmente riconosciuta illegale, abusante e mai riconosciuta dagli organismi scientifici, non possiamo credere come questa torni con sempre più frequenza nei nostri tribunali , praticamente intonsa semplicemente vestita di altri abiti e, se possibile, ancora più pesanti.

Il pre-giudizio sulle madri è semplicemente vergognoso e sempre più intollerabile non solo perché ingiusto e pre-supposto, ma soprattutto perché le mette con le spalle al muro, non lascia loro possibilità di movimento e di difesa (ed è paradossale che invece di essere difese, siano loro a doverlo fare).

Non importa che i bambini/e risultino “normali” sereni, chiaro segno di adeguatezza del genitore (nei casi di cui parliamo la madre); non importa che abbiano un ambiente, delle relazioni costruite, i loro punti di riferimento. Niente è importante perché le bambine/i non esistono e non esistono i loro bisogni-desideri, esiste solo il diritto del padre. Non esistono le leggi e le direttive che dovrebbero tutelarle/i, non esistono la psicologia, la pedagogia e la psicoanalisi che dovrebbero guidare i nostri comportamenti nei loro confronti. Niente di tutto ciò, siamo solo “Nel dominio del padre” non a caso titolo dell’ultimo mio libro scritto con la collega e amica psicoanalista Elena Liotta che purtroppo è sempre più attuale.

Come dicevo prima le madri sono davanti ad un muro insormontabile perché se le figlie/i oggetto di contesa stanno bene ed hanno un buon legame con loro e si rifiutano di stare con il padre, diventano simbiotiche, possessive, manipolatrici addirittura malevole. In alcuni casi di questo tipo che sto seguendo, queste madri vengono addirittura vessate dalle varie figure chiamate a relazionare e/o a seguire gli incontri protetti perché “si ostinano ad allattare” impedendo così la relazione con il padre. Se sono più “nervose” o hanno qualche comportamento disfunzionale (ovvia conseguenza della violenza subita come recitano tutte le linee in materia) diventano genitrici da attenzionare e non vittime di abuso da accompagnare insieme alla prole in un percorso di ri-sanamento. Ciò che dovrebbe essere un’aggravante della violenza subita, diventa invece una spada di Damocle. Lui invece appare, guarda caso,” così collaborante e attento… è lei che perde sempre la calma”.

Ma nel caso del bambino di cui parlavo all’inizio c’è, se possibile, qualcosa di ancora più grave, qualcosa che si avvicina al sadismo. L’ordinanza di prelievo forzato è stata emessa nonostante che il 3 giugno, quindi tra pochissimi giorni, sia fissata la pronuncia di appello. Mi chiedo se sia possibile dare una spiegazione qualsiasi ad una decisione del genere. Se la pronuncia sarà avversa alle richieste paterne (non oso pensare alle conseguenze psicologiche che quel piccolo sarà costretto a subire se così non sarà) e confermerà le ragioni di madre e figlio, il prelievo forzato sarà un trauma inutile e gratuito, di una gravità non misurabile, con cui il bambino dovrà fare i conti per tutta la vita. Questo sia che venga forzatamente prelevato e poi restituito alla sua vita (eventuale pronuncia positiva) sia che (auguriamoci non accada perché sarebbe una catastrofe) l’appello si pronunci in favore del padre.

Chi pagherà per questo abuso senza alcun senso se non quello di una mera affermazione di potere? Dividere un figlio/a da una madre che appare almeno “sufficientemente buona nella Winnicottiana definizione” per accontentare quella che si configura soltanto come una proprietà e non come atto d’amore paterno, non ha alcuna giustificazione. Un padre degno di chiamarsi tale e non solo perché uno spermatozoo ha contribuito al concepimento, un padre che ama suo figlio, che ha a cuore il suo benessere e il suo futuro sviluppo, non lo priverebbe mai di sua madre, non lo strapperebbe dai suoi amici e amiche, dalla sua scuola, dalla sua casa e da tutto ciò che ha fatto parte della sua vita. Un vero padre, anche nel paradossale ed improbabile caso di ragione, saprebbe aspettare, rispettare i sentimenti del figlio, trovare la modalità giusta per ricostruire con lui una relazione e non accetterebbe mai di ferirlo in modo così profondo. Ma tutto questo i giudici, le assistenti sociali, le psicologhe e tutte le altre figure chiamate ad operare non lo valutano? Come è possibile che siano ancora tanto ciechi/e di fronte a tanta inutile sofferenza?

(foto: licenza pxhere – https://pxhere.com/it/photo/826399 )

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