Il commissario Calabresi non fu ucciso da Lotta Continua

di ALDO BELLI – L’Italia con la quale si continua a non voler fare i conti, un paese dove l’abitudine a tramandare è più forte di cambiare.

Gli inediti non sono solo i documenti che mai sono giunti alla luce, ma anche quelli che, pur noti, sono caduti nell’oblio (e già questo sarebbe un bel tema per chi ancora volesse comprendere il nostro presente). La verità che Stefania Limiti ha ricostruito nel suo ultimo libro (L’estate del Golpe, edizione Chiarelettere) assume quindi il pregio del giornalista investigativo che si fa storico, attraverso quel metodo critico che Marc Bloch definì il concetto di analisi storica contrapposta alla semplice descrizione. E’ in questo modo che la verità, o la comparazione di possibili verità, dimostra che la realtà è sempre più complessa della sua versione cementificata ignorando che quando si è in cerca della verità, una metà corrisponde quasi sempre alla verità degli altri.

Luigi Calabresi arrivò a Milano alla vigilia del Sessantotto, trasferito da Roma dove era nato il 14 novembre 1937. Quando viene assassinato appena uscito di casa, in via Francesco Cherubini angolo via Mario Pagano alle 9:15 del 17 maggio 1972, quindi, non aveva ancora compiuto quarant’anni. Un giovane commissario considerato “uno dei tanti” dai vertici della polizia, ma non era così. Viene assegnato al settore della sinistra extraparlamentare, fu Calabresi a scatenare la repressione contro gli anarchici, prima per i falliti attentati del 25 aprile 1969 alla Fiera Campionaria poi per la bomba che alla Banca Nazionale dell’Agricoltura causò 17 morti e 88 feriti; ai quali il 15 dicembre 1969 si aggiunse la tragica fine del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli volato giù dalla finestra della Questura di Milano dopo un estenuante interrogatorio oltre i limiti consentiti dalla legge (l’indagine condotta dal sostituto procuratore Gerardo D’Ambrosio stabilì che il commissario Calabresi non era nella stanza al momento della caduta di Pinelli).

Anche il commissario Calabresi, dunque, contribuì alla strategia dei circoli reazionari di Stato ed oltreoceano di “trarre il massimo profitto politico dalla pista rossa” per imprimere al paese una svolta autoritaria (il 21 aprile 1967 in Grecia c’era stato il golpe dei Colonnelli, la notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 fallisce il tentativo di colpo di Stato di Junio Valerio Borghese fondatore del Fronte Nazionale). A favore di Calabresi, tuttavia, va detto che l’attenzione verso l’area della sinistra extraparlamentare era tutt’altro che fantasiosa, la spinta violenta c’era e pesante nel paese al di là delle strumentalizzazioni politiche e mediatiche degli “opposti estremismi”.

Stefania Limiti, con rigore delle fonti, scompone e ricompone i pezzi del puzzle, e i frammenti di varia forma portano alla luce un mosaico con il quale la storia assume una faccia diversa: un esercizio buono di conoscenza non solo del passato recente, ma sul quale tutt’ora permane l’incapacità della politica di fare i conti con quell’epoca dimenticando che in Italia è più forte l’abitudine a tramandare rispetto a quella di cambiare.

Calabresi aveva scoperto un traffico d’armi proveniente dal circolo nazista di Monaco di Baviera destinato agli ustascia jugoslavi e ai neofascisti italiani. Sapeva anche che Feltrinelli era in possesso di alcune prove: coincidenza, Feltrinelli muore il 14 marzo 1972 durante l’innesco di una bomba su un traliccio di alta tensione a Segrate, una vicenda rimasta densa di interrogativi. Calabresi sapeva quali ambienti politici e funzionari dello Stato avevano coperto e coprivano la strategia della tensione.

Il 15 maggio 1972, cioè due giorni prima di venire assassinato, Calabresi viene “prelevato al mattino da casa e condotto a Trieste insieme al questore Guida e l’on. Caron della Dc… A Trieste conferirono con il conte Loredan, noto fascista”. La segretezza del viaggio viene infranta due giorni dopo l’assassinio del commissario dal Bollettino di controinformazione democratica dei giornalisti milanesi. Il traffico d’armi sul quale stava indagando si estendeva “dalla Germania fino alla Rhodesia, al Sudafrica, all’Angola e a Israele”. Il prefetto di Milano ordinò di attestare che quel giorno, il 15 maggio, il commissario si trovava nel suo ufficio in Questura. A Trieste, Calabresi aveva trovato in una cava il deposito di armi.

Il telefono di Calabresi finisce “nelle maglie di una vasta operazione di intercettazione del tutto illegale”. Aveva rivelato al Viminale la fonte dell’informazione ricevuta, il centro di smistamento sarebbe stato Trieste. Pochi giorni dopo la sua uccisione “avrebbe dovuto incontrare i magistrati per riferire l’esito delle sue inchieste, ma quei rapporti sparirono dal cassetto della sua scrivania alla Questura di Milano”.

Sul luogo dell’assassinio, giorni dopo il setaccio della polizia scientifica, un abitante di via Cherubini rinvenne un proiettile calibro 38, diverso da quello acquisito che era un proiettile Beaux calibro 7.65. Poi spuntò fuori un terzo proiettile: un Fiocchi calibro 38 (anche se “non è mai stato formalmente trovato”). Nel 1977 una nuova perizia affidata al prof. Giorgio Accardo (direttore del laboratorio di fisica dell’Istituto centrale del restauro di Roma) stabilì che “le improntature dei due reperti si dimostrano incompatibili con gli spari da una stessa pistola e con la successione di colpi (testa-schiena)”.

Conservo un ricordo personale. Ero buon amico del vicequestore che si trovava in servizio a Pisa il pomeriggio in cui si svolse il famoso comizio dove Sofri avrebbe impartito l’ordine di giustiziare Calabresi: mi confidò che per tutto il tempo rimase alle costole di Sofri, e che di incontri del genere non ne vide. L’aveva dichiarato anche come testimone durante il processo. Il mio amico vicequestore aveva già una certa età, tuttavia “la mia carriera è finita” mi disse, e senza alcun pentimento.

Il giornale di Lotta Continua in quei mesi scatenò contro Calabresi un odio quotidiano, e l’incitazione alla sua morte, che si riversò negli slogan e nei cortei della sinistra extraparlamentare in ogni piazza d’Italia, la morte dell’innocente Pinelli e l’arresto e le vessazioni contro l’innocente Valpreda solo perché anarchici, suscitarono però una reazione civile più grande nel paese.

Lotta Continua era una realtà composta non solo da giovani sognatori di un mondo più giusto ed umano emersi dalle sacche del disagio sociale ed economico, nel servizio d’ordine ai cortei le bandiere erano bastoni e la violenza lo strumento della lotta di classe.

Adriano Sofri appartiene al girone dei “cattivi maestri” di una generazione, ma è evidente che la sua ricercata condanna nell’infinito processo come mandante dell’assassinio di Calabresi rappresenta comunque l’epilogo di una pietra tombale sopra una verità che avrebbe provocato un terremoto di Stato, con molti nomi e cognomi ancora viventi e potenti che in questo modo non sarebbero mai stati chiamati a rispondere di tradimento della Costituzione della Repubblica Italiana.