di GIANCARLO ALTAVILLA – L’autogoverno della magistratura è diventato arbitrio, si è volontariamente e segretamente mischiato con la politica.
Leggere un libro, scorrerne le pagine, riflettendo sulle sue parole. E contemporaneamente sentire affiorare alla mente la smemorata lettura di un altro vecchio libro, di cui ricordi con precisione lo scaffale che lo custodisce. Il libro in lettura, appena pubblicato, è “Il Sistema“, nel quale è raccolta un’intervista del giornalista Alessandro Sallusti all’ex magistrato Luca Palamara, di recente radiato dall’ordine, per effetto delle sue responsabilità disciplinari. Il libro riaffacciato alla memoria è invece “L’Elogio dei giudici”, scritto da Piero Calamandrei, negli anni ’30 del secolo scorso.
Lo dico subito: l’unico effetto apprezzabile della lettura de “Il Sistema” è quello di sollecitare la rilettura del libro di Calamadrei. Di qua, squallore e miseria; di là, onore e ironia.
Sallusti ha offerto la pagina e la penna all’ex magistrato, consentendogli di raccontare le sue verità sulla vicenda che l’ha condotto alla radiazione dalla magistratura, a causa di quanto compiuto nell’esercizio delle funzioni di membro del CSM e non solo. Palamara, secondo gli accusatori e i giudici disciplinari, era il regista delle nomine nelle procure d’Italia, avvenute in una logica di scambio, di opportunità e convenienza politica che confligge non solo con il rigore morale, ma anche con il dovere d’ufficio. Riunioni notturne in alberghi romani, cene e incontri segreti in cui il potente magistrato discuteva e concordava nomine, trasferimenti, incarichi e funzioni ai magistrati, contro alcuni, a favore di altri. Questo è quanto è stato scritto dai giornali su Palamara.
Poi il libro. La sua lettura era per me tanto obbligata (informarsi è un dovere) quanto impegnativa (non apprezzo il Sallusti pensiero e non mi piacciono le autodifese extra ordinem degli accusati eccellenti). Ma, a parte la curiosità destata da alcuni episodi, il libro è solo l’aggressiva ammissione di un andazzo, tanto disdicevole, quanto inveterato. Pagina dopo pagina nel libro di Sallusti-Palamara si dipana la storia recente della magistratura di governo: il CSM, le associazioni dei giudici, le correnti, la politica, gli affaristi. I tribunali si trasfigurano in teatri nei quali trovano rappresentazione vecchi riti, fatti di apparenza e di stanco e vacuo rigore. Sta negli interna corporis dei palazzi di giustizia e non solo, nell’ingenuo segreto di chat telefoniche, la sostanza delle cose: le carriere, i favori, gli appoggi, il potere. Il potere di decidere in segreto, di far apparire giusto e legittimo ciò che è solo l’esito di un accordo, buono soltanto per chi l’ha concluso. Toghe che svolazzano in corridoi austeri, come ali di mosche. Carriere prestigiose fondate non sul lavoro profuso per pronunciare sentenze giuste e tempestive, ma su appoggi e intese proficue. Il potere dei giudici. La costituzione gliel’ha affidato per renderli indipendenti e affrancati da condizionamenti (soprattutto politici).
Invece? L’autogoverno della magistratura è diventato arbitrio e si è volontariamente e segretamente mischiato con la politica. Il potere di giudicare e il potere di amministrare: segretamente insieme. Norberto Bobbio scrisse che il potere democratico è quello apparente, quello che si lascia guardare e giudicare, che si esprime con atti e comportamenti visibili, che appaiono. Il potere segreto, esercitato nell’ombra, è antidemocratico, prima che odioso.
L’indipendenza della magistratura è un principio di civiltà che deve essere difeso; e tuttavia chi confonde l’indipendenza con l’incolumità, il potere con l’arbitrio, il dovere con l’autodeterminazione, deve essere perseguito, perché tradendo il principio democratico ha commesso il più grave dei reati.
Caro Piero Calamandrei, Illustre Maestro, mi rigiro tra le mani il Suo vecchio libro. Leggo di nuovo del sostituto procuratore Pasquale Colagrande, irriducibile antifascista, indisponibile a piegare la Giustizia alle volontà della politica. Fu fucilato all’alba del 15 novembre 1943 e, tutti lo confermarono, la sua ultima parola lanciata contro i suoi sicari fu ‘Assassini’: e non era una imprecazione, ma una sentenza. Leggo di Pasquale Saraceno, giudice scrupoloso e attento, ossessionato dall’errore giudiziario. Ingenuo e grande quando chiese al ministero di essere rinchiuso sotto falso nome per qualche mese in carcere, ‘tra i delinquenti comuni, per misurare coll’esperienza le loro sofferenze e cercare nella realtà della galera la giustificazione (se c’è) della pena’. E leggo di Aurelio Sansoni, giudice nel ventennio fascista, che non fu disposto a rinnegare la Giustizia per far la volontà degli squadristi che invadevano le aule del tribunale. Lo chiamavano ‘rosso’, ‘perché sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della frazione contraria’.
Non sarà nello scaffale che custodisce L’Elogio che riporrò l’opera di Sallusti-Palamara, Caro Maestro. Il suo vecchio libro rimarrà incontaminato. Resterà impresso nelle sue pagine l’esempio dell’onore ‘di quei magistrati fieri ed umani, per i quali la giustizia fu non svogliato disbrigo di pratiche burocratiche, ma impegno religioso di tutta la vita’.
Giancarlo Altavilla è avvocato amministrativista, cassazionista, professore a contratto all’Università di Pisa