Michele Martocci

Intervista al compositore Michele Martocci

di GIOVANNI VILLANI – Nel Paese della Musica essere giovani e senza raccomandazioni è più difficile che combattere il Covid.

Lo trovi appartato in un bar, taciturno con un libro in mano, pienamente immerso in quello che sta leggendo. Niente lo può distrarre, neppure il chiacchierio insistente della gente accanto. A volte il suo sguardo sembra perdersi nel vuoto, come se gli passassero per il cervello strani ricordi o progetti, magari musicali, visto che il suo mestiere è fare il compositore per cortometraggi o per film.

Non se la passa ovviamente bene col lavoro, considerato l’ambito specifico cinematografico, in piena crisi, dove se togli i soliti noti arrangiatori di colonne sonore, non restano altri spazi disponibili. Ma lui non demorde e continua a sperare nel momento decisivo, pur se te lo dice sommessamente, con un’estrema timidezza.

Michele Martocci, classe 1958, romano adottato da Verona, è il “misterioso” personaggio che vogliamo additare alle cronache di Toscana Yoday, non fosse altro per qualche brano che riesci a carpirgli fra le sue innumerevoli e multiformi composizioni, dal cui ascolto capisci di non essere davanti ad una musica routinaria, ma di idee, di consapevolezze verso la forma di comunicazione più potente a nostra disposizione: il suono.

Da quanto tempo si dedica alla composizione e con quali motivazioni?

“Credo non esista un “tempo cosciente” per decidere inizi e ragioni di qualcosa che si attui ed accada, quando e se avvenga. E visto che ho vissuto la musica da bambino, mi sono vestito di musica senza neppure saperlo. Ero affascinato dall’epica sonata perché ero timido, pieno di paure, piccolo e mingherlino, come una sorta di riscatto sognavo di compiere gesta, d’essere qualcosa di molto differente da me, un eroe senza paura.

Avevo dieci anni quando mio papà si presentò un giorno in casa con un organo elettrico, di nessuna pretesa, ma per me un oggetto immenso; e poco dopo di ritorno da un viaggio in Giappone, con una fonovaligia Sanyo dotata di radio, giradischi e registratore in un unico corpo, con qualche disco. Di lì è iniziata l’avventura del potere della musica.

Per cominciare timidamente a cercare di combinare con essa qualcosa sono dovuti passare circa una decina d’anni, con un pianoforte August Főrster verticale, i primi sintetizzatori ed una teac a quattro piste. Ma la strada era tutta in salita ed ancora piena di ostacoli. Talvolta penso che neppure oggi ho ancora iniziato alcunché.”

Ispirazione musicale cosa significa per lei?

“Ispirazione? L’ho sempre considerata come un’idea, un poco abusata, un concetto romantico o qualcosa che taluni mettono in campo a parole, per darsi importanza e per “celare in una bruma di pretenzioso mistero” una musica sciatta. Io credo proprio d’averla mai neppure sfiorata. La vita, con le sue alterne vicende e sorprese, provoca spunti emozionali, semmai, per una musica senza destinazione. Immaginare qualcosa e darle forma, non nel senso di “forma sistematica”, ma vita: è un leggersi dentro. Credo nella casualità e nel destino. Non sarò mai ispirato, ma un piccolo cospiratore del proprio destino”.

Conserva le sue composizioni anche se non hanno ottenuto un riscontro positivo?

“Vivo ai margini periferici del fare musicale: i riscontri sono riservati a musicisti di successo. Tuttavia ne ricordo qualcuno ed in particolare uno, Carlo Savina. Ebbi la fortuna di passare un paio d’ore in casa sua, discorrendo di musica, carriera, ecc. Lui ascoltò la mia musica e si soffermò su un foxtrot che avevo composto per un cortometraggio. Lo volle ascoltare per ben tre volte. Io non capivo il perché. E lo diresse pure. Ebbene alla fine si voltò verso di me e disse: “Ragazzo, questo te lo invidio; avrei voluto comporlo io!”. Rimasi impietrito, ma colmo di gioia. Comunque, si, conservo tutto, anche appunti e frammenti: sono parte della mia vita”.

Con le sue musiche ha vinto qualche premio?

“Al 14° Festival Internazionale “A.F. Lavagnino” Musica e Cinema del 2014. Sono stato giudicato meritevole del 5° piazzamento. Nello stesso anno, all’ottava edizione del Mario Nascimbeni Award, altro concorso internazionale di musiche per film: mi sono classificato al secondo posto. Infine nel 2015, nella prima edizione dell’International Composition Competition “Maurice Ravel”, non ho raggiunto la finale, ma sono stato gratificato del contentino: essere giudicato tra i migliori compositori italiani in gara, con un “gratly appreciated composer”.

Dopo il film La scommessa del 1990 ha musicato altre pellicole?

“Ho vissuto due anni in una tra le città più brutte da me conosciute: Berlino. Lì ho composto le musiche per due documentari: “Die Sklaven Gottes” e “Die Kogi”. Tornato a Roma, un altro cortometraggio “Grazie tante” e poi ho lavorato per Rai Sat. In precedenza ho composto musiche per un teatro della capitale e per altri documentari”:

Che tipo di musicista si qualificherebbe?

“Mi sono ritrovato a possedere un senso dell’umorismo condito dall’immancabile cinismo romano e da autoironia, oserei dire spiccato. Mi definirei quindi: un “passante” della musica, Poi non so, sarà il destino, se avrà abbastanza tempo da perdere con me, a dirlo”.

Nella vita vorrebbe musicare una grande partitura?

“Mah! Non sarebbe poi così difficile. Uno allunga il brodo e decuplica l’organico strumentale…È solo una battuta, ovviamente. Sarò banale, forse, ma considero una grande partitura la vita, la propria di ciascuno, il vissuto e la continuazione di esso. Tutto ha un suono o più suoni, una trama ed una tessitura, con accelerazioni e ritenuti, vaghe ondeggiate, pianissimi, un tutti potente che ti fa cadere dalla poltrona. Fosse così l’ho già composta, senza aver mai scritto neppure una nota”.

Con chi ha studiato?

“Sono certo di aver speso più tempo a studiare e leggere e anche a scrivere, non però di musica. Soprattutto al tempo dell’università dove ho studiato Lettere e Filosofia, ma con piglio aggressivo, direi più analitico di tanti altri colleghi. Un’università che ho costruito su di me, come tutto nella mia vita, litigando spesso e volentieri coi professori, perché cercavo sempre autori scomodi e dal pensiero più profondo ed attuale. Detto ciò ho trovato anche il tempo per studiare musica, col compianto Cesare Croci, brevemente con Ada Gentile e con Gino Marinuzzi jr, nonché con amici vincitori del Prix de Rome. Il tutto sostenuto da una fittissima biblioteca musicale tecnica e saggistica”.

Come mai un romano finisce a Verona?

“È una storia lunga, e non solo mia. Anzitutto perché Verona è una piccola, ma splendida Roma. E poi per far crescere mio figlio, Leone Augusto, in un contesto meno dispersivo e dominato dal caos. Direi più provinciale, ma in questo caso l’accezione non è negativa, ma ha uno respiro di semplicità e minor tristezza”.