di TOMMASO GARDELLA – Al suo secondo anno nella classe regina e in sella a una Suzuki, non accadeva dal 2000 di Kenny Roberts Jr.
Joan Mir ha vinto il mondiale di MotoGP a 23 anni, al suo secondo anno nella classe regina e in sella a una Suzuki, cosa che non accadeva dal 2000 quando a vincere il mondiale fu un certo Kenny Roberts Jr.
Il percorso di crescita di Mir è stato veramente incredibile e inaspettato, tant’è che anche in Suzuki si aspettavano di accompagnare Rins alla conquista del mondiale – comunque il lotta per la seconda posizione in campionato – ma la costanza, la tranquillità e il lavoro del maiorchino sono stati semplicemente fantastici, dimostrando una maturità e una consapevolezza di se stesso e dei propri mezzi che difficilmente si attribuiscono a un ragazzo così giovane. La grande gestione di se stesso è quello che ha fatto la differenza su tutti gli altri, vincendo una sola gara sì ma consapevole che l’assenza di Marquez avrebbe – e così è stato – creato un equilibrio e una ‘confusione’ attribuibile alle categorie sottostanti alla MotoGP.
Il ‘trucco’ era quindi quello di fare più punti possibili, di non commettere errori, di usare la testa – esempio lampante fu il GP di Aragón, quando a fine gara e con il casco ancora in dosso, con una consapevolezza disarmante, disse “oggi non potevo tirare fuori più di questo”, chiudendo terzo – e sfruttare ogni volta le occasioni che gli si presentavano davanti, capacità questa che si attribuisce di solito ai fuori classe, ed è esattamente quello che ha fatto…dalla quarta gara in poi, visto che nelle prime tre collezionò solo 5 punti. Ma come disse Brivio, Mir “è come un diesel, ragiona e funziona”. Ecco magari non ci aspettavamo che funzionasse così bene.
La svolta è arrivata con il podio ottenuto in Austria, periodo nel quale lui e la Suzuki hanno compiuto quel salto di qualità che ha permesso a entrambi di crescere, migliorare e iniziare, numeri alla mano, la grande rimonta che gli permetterà, magari, la doppietta titolo piloti e costruttori proprio nell’anno in cui la casa giapponese festeggia i sessant’anni di competizioni.
Questo grandissimo anno è frutto di un enorme lavoro anno iniziato 5 anni fa praticamente da zero e indirizzato interamente da un grandissimo gestore e conoscitore dell’ambiente della MotoGP: Davide Brivio, manager di grande esperienza nel paddock e attore principale nel convincere Valentino Rossi a sposare il progetto Yamaha, vincendo 5 titoli.
Quando approdò alla Suzuki non c’era niente, la casa giapponese aveva lasciato il motomondiale con l’intendo di ripartire da zero anche dal punto di vista gestionale e organizzativo. Quindi Davide dovette mettersi lì e iniziare a stilare una lista di quello che sarebbe servito per creare un team capace di lottare, di lavorare, di piegarsi ma non spezzarsi sotto la il peso della pressione. “Avevo le idee chiare sul carattere e le attitudini dei componenti della squadra che volevo: persone ispirate, ambiziose. E tranquille, come me. Io non sono mai stato uno che picchia il pugno sul tavolo, che urla. Preferisco un sorriso, il desiderio di comprendere. Gli scontri non fanno per me”. Frase questa figlia del periodo in Yamaha, quando la rivalità tra i due alfieri, Rossi e Lorenzo, fu così potente da dividere letteralmente il box in due, creando due squadre che lottavano una contro l’altra. Ma si sa nei rapporti, soprattutto lavorativi, si impara sempre, anche quando le cose non vanno come dovrebbero, insegnandoti quello che non va fatto e provarlo sulla propria pelle è utile per sapere come comportarsi in determinate circostanze che potrebbero portare a indesiderate azioni, riconoscendole prima degli altri e, quindi, evitandole.
Con questo spirito, infatti, sono stati scelti non solo le persone che avrebbero composto il team nel box ma anche quelle due fondamentali che avrebbero portato in pista le due creazioni della casa di Hamamatsu. Aleix espargaro, Maverick Vinales, Andrea Iannone e gli attuali Alex Rins e Joan Mir, l’imperativo era trovare due piloti in grado non solo di collaborare l’uno con l’altro, aiutandosi a vicenda, ma anche di sviluppare e far crescere la moto e il team. E direi che la missione è stata compiuta più che egregiamente. La costanza, l’efficienza, la capacità di competere in ogni condizione, sono state le qualità che hanno contraddistinto la Suzuki GSX-RR e che invece sono mancate alle più titolate Yamaha, Honda e Ducati. Il GP di Aragón vinto da Alex Rins e quello successivo di Valencia in cui i piloti Suzuki hanno tagliato il traguardo al primo e secondo posto, cosa che non succedeva dal 1982, sono solo le ultime di molte prestazioni che hanno tinto questo mondiale di azzurro.
Dietro a un grande campione c’è sempre un grande uomo, capace di instaurare – e condizionare in tal senso chi gli sta attorno – un rapporto duraturo che va oltre quello professionale, permettendogli di lasciare un segno nelle persone e nei campioni che lo avvicinano. La semplicità, la trasparenza e le genuinità sono tratti che contraddistinguono Brivio e che lo accomunano ai grandi gestori che hanno fatto la storia dello sport. Da Phill Jackson a Billy Bean, passando per sir Alex Ferguson, fino al più recente Toto Wolff, Davide Brivio entra di diritto in questa cerchia di persone che oltre a saper creare un team vincente, sanno anche traghettarlo fino all’obiettivo principale usando una sola, grande, potentissima e spietata arma. L’umanità.
Attenti a quei due, quindi. La crescita va di pari passo e vedendo la strada imboccata dalla Suzuki non è impensabile il back to back dell’anno prossimo!
(foto: licenza pxhere – https://pxhere.com/en/photo/1006063 )
Tommaso Gardella è nato a Milano nel 1997, studia Storia all’Università di Firenze