Tribunale di Lucca

La giudice lucchese, la minigonna dell’impiegata, e il cane

di ALDO BELLI – “Minigonna, calze a rete e scollatura”, anche ordinare ad una dipendente di tenere il cane del presidente, a Lucca è lecito.

Se a vostra figlia, il datore di lavoro si rivolgesse in questo modo, cosa fareste?

Sono stata chiamata in ufficio dal direttore per dettarmi una lettera, si è avvicinato e mi ha detto che ero troppo tesa e che lui non mi avrebbe fatti niente che io non volessi. Al che, sono uscita velocemente dalla sua stanza. Frequentemente il direttore mi grida che non sono attenta sul lavoro, e che è sempre lui che deve ricordarmi le cose da fare, e mi dice che non sopporta il brutto vizio che io avrei di giustificarmi pur essendo cosciente della estrema difficoltà che ho a svolgere· compiti di normale impiegata amministrativa (vostra figlia è laureata in Relazioni Internazionali e parla tre lingue). Iniziai ad accusare disagi sempre più fastidiosi, anche episodi di tachicardia e di caldo alla testa, con problemi di sudorazione. Fu così che su ordine del direttore, il quale riferiva di avere sentito un cattivo odore, mi fu consegnato un deodorante invitandomi ad usarlo. Mi ha detto il direttore: è un peccato che una bambina così bella come te abbia questi problemi. Al termine di una riunione, il direttore mi ha contestato di non essermi alzata immediatamente per andare ad aprire fa porta, e che tale comportamento non doveva ripetersi. Ti spiego, ha detto, come devi comportarti: muovere le gambette e correre incontro alle persone come una brava geisha. Frequentemente, il direttore si affaccia nella mia stanza e mi dice: domani mi raccomando, minigonna e sorrisino perché arriva il direttore della banca che deve darci un mutuo. Lunedì minigonna, calze a rete e scollatura, arriva il nuovo presidente. Stasera mentre io sono all’opera – le dice il presidente – mi tieni il cagnolino, tanto ti diverti, è un onore per te stare con il mio cane.

Dalla sentenza della dottoressa Alfonsina Manfredini (la giudice del Tribunale di Lucca) ci saremmo attesi (dopo dieci anni di sonno della causa nel cassetto) una dichiarazione con la quale si attestava il falso delle lamentele esposte dalla dipendente: trattandosi per altro, il posto di lavoro, di un ente pubblico (cioè pagato dai cittadini).

Invece, nella sentenza del 3 giugno scorso, abbiamo letto sì la condanna della ex dipendente (incluso il pagamento delle spese processuali e il negato ristoro del preavviso che le era stato trattenuto quanto si dimise invocando la giusta causa), ma con queste motivazioni: “Insomma, vi era un grande familiarità nell’ambiente lavorativo: spesso i vari dipendenti andavano anche tutti insieme a cena, come nell’occasione narrata dalla teste in cui scelsero per cenare il locale di un parente della stessa·. Questo clima, verosimilmente, aveva determinato anche modi più confidenziali e questo ha certamente inciso, a parere di questa giudicante nelle modalità espressive del Direttore che, descritto da tutti come un po’ burbero e un po’ umorale, ha forse ritenuto di essere spiritoso con battute, peraltro di uso corrente (calze a rete e minigonna!) che sono state invece lette come inadeguate o persino offensive da chi quei modi confidenziali non possedeva come proprio patrimonio culturale… In ultimo e con riguardo all’episodio del cane del Presidente tenuto dalla ricorrente nella sera del 24 agosto 2012 mentre il Presidente era impegnato in un incontro, non si ravvisa l’illiceità del chiedere questa collaborazione e neppure l’inopportunità stanti i rapporti normali con il Presidente (che l’aveva voluta come sua segretaria), se non dal punto di vista del come la ricorrente ha vissuto questa situazione…”.

In conclusione, e la tesi non è nuova: un clima familiare in ambito lavorativo giustifica l’offesa alla persona, perché a stabilire se la battuta è solo spiritosa è chi la fa e non chi la riceve. L’invalidità del 100% che Inail e Inps hanno riconosciuto alla ex dipendente per cause di lavoro sarà stata un abbaglio (voglio sperare che la giudice abbia sentito come testi i medici che l’hanno certificata).

Come avrete notato, non ho scritto il nome del datore di lavoro. Solo perché quando si parla di offese di genere -guarda caso, il destinatario è sempre una donna! – non è ammessa la polemica. Intanto, voi lettori rispondete alla domanda che vi ho rivolto: se fosse stata vostra figlia? Per quanto ci riguarda, chiederemo al Tribunale di Lucca una copia dell’intero fascicolo della causa. Intanto, appena pubblicato questo articolo, lo invieremo al Ministro della Giustizia, Marta Cartabia: anche a lei rivolgeremo la stessa domanda: se si trattasse di sua figlia?