Colui che impara da bambino a cosa è simile? A inchiostro scritto su un foglio nuovo
Come anticipato nell’articolo precedente, proseguiamo il breve itinerario attraverso alcuni brani del Talmud connessi con il mondo della scuola e dell’educazione. Prima mi paiono però opportune due premesse.
Due premesse
La prima è di carattere metodologico e concerne l’utilizzo di testi antichi in relazione a contesti molto lontani dal punto di vista cronologico e culturale. Vi è il rischio di un certo automatismo negli accostamenti e quindi di qualche forzatura. Ho tentato di ovviarvi attraverso una traduzione per quanto possibile letterale che non faccia dire al testo più di ciò che esso contiene, o cose diverse. La seconda premessa, in parte legata alla prima, è che molti studiosi dubitano che la descrizione del sistema di istruzione che abbiamo letto e leggeremo rispecchiasse la concreta realtà storica delle comunità ebraiche palestinesi o della Babilonia, sembrando piuttosto discorsi mossi dalla volontà di fornire un quadro ideale. Ma è proprio questa progettualità che ci interessa, perché, sganciandosi dalla realtà fattuale, consente un confronto tra le idee che comunità così distanti sviluppano sul proprio sistema di istruzione. In alcune condizioni è proprio da quel confronto che nascono piani di miglioramento; è indubbio infatti che la scuola delineata dalle fonti rabbiniche tende a porsi come modello non inferiore a quello della paideia greco-romana del periodo antico e tardo-antico.
“Il numero di allievi per un maestro è venticinque bambini”
Ebbene, proseguendo ancora dal trattato Bava Batra del Talmud babilonese, leggiamo: Rava disse: “Il numero di allievi per un maestro è venticinque bambini e se ce ne sono cinquanta se ne stabiliscono due; se ce ne sono quaranta, viene posto un soprintendente della piattaforma e lo supportano quelli della città…”.
Qui entriamo in uno dei temi più presenti nel dibattito contemporaneo. Il numero di alunni per classe è diventato un argomento cogente soltanto in relazione alla possibilità di rispettare le distanze sanitarie di sicurezza; prima era riassunto nella formula trita delle classi pollaio, obiettivo meramente propagandistico di tutte le forze politiche. Eppure, chi chiedeva di sfruttare l’emergenza covid per ripensare situazioni critiche già da prima, come questa, è rimasto deluso. Quei numeri non sono cambiati e sono maggiori della scuola pensata nel Talmud, che progetta classi da venticinque bambini.
In caso di numeri grandi, ma non da ottenerne due autonome, un’altra intuizione che va a toccare un nervo scoperto delle ultime riforme scolastiche italiane, vale a dire le compresenze: compresse per ragioni di spesa nel nostro sistema – che si nascondeva malamente dietro il presunto vantaggio pedagogico del maestro unico – compaiono nel Talmud nella forma dell’assistente che supporta il maestro dalla piattaforma da cui questi impartisce il suo insegnamento. A scanso di equivoci, è detto che egli va pagato con il supporto dei cittadini, quella che noi chiameremmo fiscalità generale.
Ma vorrei passare ora dal sistema all’aula, dall’istituzione alle persone. Gli insegnanti sono considerati spesso una categoria privilegiata e, anche per questo, eccessivamente rivendicativa. Nella loro visione, invece, per lo più sentono di non ricevere alcuna considerazione, di essere malpagati e messi nelle condizioni di non poter lavorare come vorrebbero. Il nostro trattato, dopo una discussione se sia migliore un docente molto preparato o uno meno preparato ma molto preciso, assume una delle caratteristiche tipiche del Talmud introducendo una questione halakica, cioè legalistica.
Un insegnante preparato o preciso?
Quella dell’insegnante è fatta rientrare tra le professioni di coloro che devono considerarsi, alla lettera, pre-avvisati; ciò che le accomuna è questo: Il principio della questione è che per ogni perdita che non può tornare indietro, colui che la commette è considerato pre-avvisato.
Lo spunto per l’affermazione di questa norma è dato dalla preferenza che un dottore accorda al maestro preciso rispetto a quello preparato, perché in un ragazzo “quando un errore è impiantato, è impiantato”. L’insegnante deve cioè avere la piena responsabilità del proprio agire perché il suo lavoro incide su persone in formazione, per le quali la perdita eventualmente causata dal maestro non può tornare indietro.
C’è un altro testo, Pirqe Avot (un’antologia dei detti più importanti dei rabbi), che usa al riguardo un’immagine molto bella: Colui che impara da bambino a cosa è simile? A inchiostro scritto su un foglio nuovo. Una mano che tiene quella penna è proprio del maestro. È per questo quindi, pur con tutti i nostri limiti, che da insegnanti vorremmo essere messi in condizione, diciamo così, di scrivere al meglio e su un numero di fogli adeguato. L’altra mano è quella del ragazzo e del contesto da cui proviene, del quale l’intera comunità deve farsi carico affinché sviluppi in pienezza e autonomia il proprio tracciato sul foglio nuovo.
Colui che sa leggere, può farlo da sé, quello che non legge fallo stare in compagnia degli altri ragazzi
Ma le mani non sono finite. Ci sono quelle dei compagni. Un’altra affermazione del trattato che abbiamo seguito ci porta a chiudere per questa via: Colui che sa leggere, può farlo da sé, quello che non legge fallo stare in compagnia degli altri ragazzi. Anche qui alcuni spunti di estremo interesse, cioè che la scuola non vuole lasciare nessuno indietro, ma, ancora più rilevante, la consapevolezza di quanto sia importante il gruppo, perché è lì che migliora chi ha difficoltà.
Il Talmud (ma su ciò proporrò in futuro anche altre riflessioni, ad esempio del retore latino Quintiliano) ha colto alla perfezione l’essenzialità della dimensione orizzontale dei processi cognitivi, dell’equilibrio non solo numerico, ma evidentemente anche qualitativo del gruppo classe. È anche per questo che chiediamo a gran voce che, in sicurezza, si creino con gli investimenti necessari le condizioni per il rientro in presenza, cioè per quel tipo di scrittura su fogli nuovi e questo tipo di lettura collettiva.

Massimo Gargiulo insegna latino e greco nei licei. Ha avuto e ha tuttora anche incarichi nelle università, occupandosi dell’ebraismo del Secondo Tempio e rabbinico. Frutto di tale attività è la redazione di vari saggi e articoli.