La violenza sulle donne. Finiamola con i discorsi e i tamburi!

di ALDO BELLI – Certi pensieri è meglio non scriverli a caldo, soprattutto se vanno controcorrente, in un Paese dove tutto diventa folclore.

Il 17 dicembre 1999 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite inserì nel Calendario civile la data del 25 novembre come Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: scelse lo stesso giorno del 1960 in cui le tre sorelle Mirabal vennero torturate e uccise nella Repubblica Dominicana in quanto attiviste dissidenti contro la dittatura di Rafael Leónidas Trujillo.

Patria, Minerva e María Teresa – merita ricordarlo in questi strani tempi di contrapposizioni di genere – rappresentano il simbolo della liberazione della donna come condizione per la liberazione di tutta la società, non solo una parte di essa; per dirla con il filosofo liberale ed economista inglese J.S. Mill che rivendicò la parità di diritti civili e politici tra i sessi (“On the subjection of women”, 1869), il grado di elevazione delle donne è un sintomo della civiltà di una nazione. In Italia dopo la conquista del diritto di voto (1946), la conquista successiva (senza dimenticare che la professione di giudice è stata accessibile alle donne solo dal 1963) è stata quella delle “Quote rosa” (2011-2015) con la quale è stata resa obbligatoria per legge l’elezione (e la nomina) per tutte le cariche pubbliche del 30% di donne. Come dire: poiché i partiti o movimenti politici non erano in grado di tenere in considerazione le competenze femminili, allora gli si imponeva per legge. Altra più autorevole certificazione di Stato che in Italia i meriti non hanno nessun valore poteva essere fatta.

L’idea di scolpire un nome o un evento sul Calendario è remota (almeno dal 1588 con la nascita del Calendario gregoriano). Nel Calendario laico sono oggi 140 le “Giornate Internazionali” fissate per ogni anno dalle Nazioni Unite (alle quali si aggiunge un numero indefinito di giornate nazionali istituite nei singoli Paesi): il rischio è che finiscano per diventare tutte “feste comandate”, come chi va a Messa solo la domenica, per Pasqua e per Natale, pensando di avere così risolto la propria coscienza di buon cristiano. E non mi riferisco alle migliaia di donne che hanno invaso le piazze anche in Italia.

Io, comunque, in piazza non sono andato. Le Messe comandate non mi piacciono. Specie se il rumore dei tamburi non cambia di un centimetro le cose.

La piazza è un archetipo. Jung, nella sua psicologia analitica, definì l’archetipo un contenuto dell’inconscio collettivo che determina la tendenza a reagire e a percepire la realtà secondo forme tipiche costanti nei vari gruppi culturali e periodi storici. Mi viene da pensare, quindi, che ancora oggi si celebri con la piazza il rito della della polis greca come luogo di riunione della comunità e centro della vita politica: quando comunità, invece, significa il 60% degli italiani che alle ultime regionali non sono neppure andati a votare, e la vita politica è assai lontana dalle piazze e dalle strade. La piazza, ormai, più che alla presa della Bastiglia assomiglia in Italia alla Danza della pioggia.

I dati della violenza contro le donne esprimono la sua dimensione storica, e globale.

Secondo le Nazioni Unite, nel mondo si verificano 137 femminicidi ogni giorno, nel 2018 circa 379 milioni di donne hanno subìto violenze fisiche o sessuali da parte del partner, circa 15 milioni di ragazze tra i 15 e i 19 anni hanno subìto violenza sessuale. Il 58% degli omicidi di donne riportati nel 2017 è stato commesso dal partner, da un ex partner o da un familiare.

Questi dati dovrebbe far riflettere chi continua a deridere la necessità di un recupero di valore (culturale) della famiglia come istituzione sociale fondamentale: sempre che non pensino, puerilmente, che eliminando la famiglia si eliminerebbero anche i femminicidi e le violenze all’interno delle mura domestiche.

Il George Institute for Women, Peace and Security nel rapporto 2021-2022 colloca l’Italia al 28° posto nelle performance nazionali e nell’indice e negli indicatori relativi ad Inclusione Giustizia e Sicurezza per le donne: l’Italia è avanti solo a Polonia, Lituania, Repubblica Ceca, Hong Kong, Corea del Sud e Serbia. La Giornata internazionale contro la violenza sulle donne che si celebra dal 1999 non mi pare abbia prodotto grandi frutti.

Se la violenza sulle donne è un fenomeno globale perché storicizzato in una cultura cresciuta nel potere maschile, sarebbe allora il caso di evitare tanti discorsi, e magari anche i tamburi; prendendo atto, quindi, che la sua responsabilità sta nelle funzioni che fuoriescono dalle funzioni ordinarie di uno Stato: il compito, appunto, di invertire e cambiare il corso della storia. Se questo non avviene, significa che lo Stato agevola la violenza sulle donne: lasciando che il suo fertilizzante prosegua a rigenerarsi nel corpo profondo del Paese. Tutto il resto viene dopo.

Anziché le piazze – in conclusione – sarebbe allora assai più utile marciare sul Parlamento, le Regioni e i Comuni, i tribunali, le scuole e le università. Perché è lì che si annida l’erba cattiva. Anziché propinarci i numeri della violenza e delle vittime, l’angoscioso bombardamento televisivo, le paginate di giornale ridotte a bollettino di cronaca nera, sarebbe più utile pretendere, per ogni Comune e Regione, al Parlamento, nelle Corti di Giustizia, di rendere conto pubblicamente e periodicamente ciò che di concreto è stato fatto per rimuovere il degrado culturale e sociale sul quale sopravvive la violenza contro le donne; per dimostrare la certezza della pena, e al tempo stesso per rendere le pene uno strumento di recupero sociale affinché non rimangano solo un esempio teorico o una parentesi oltre la quale una volta in libertà il lupo perde il pelo ma non il vizio.

Nell’era dell’Intelligenza Artificiale tante cose sono cadute di valore, tra queste però non i fatti. E i fatti dovrebbero essere lampanti. E’ stato distrutto il sistema educativo, dalle scuole alle università, i ragazzi non sono capaci neppure di scrivere e leggere. Nei tribunali si dovrebbe sostituire l’epigrafe “La Giustizia è uguale per tutti” con “Qui non si rende giustizia” per la durata dei processi che vanifica la certezza della pena. Il sistema economico, abbandonato a se stesso, ha distrutto i tempi umani della relazione genitori-figli: vuoi costringendo la coppia al lavoro intensivo, vuoi impoverendo la vita domestica per la mancanza di lavoro. L’età di chi trascorre le proprie giornate alla mercé di Internet e del dark web senza nessuna educazione si abbassa sempre di più. Tra scuole parcheggio, solitudine domestica o periferie degradate in espansione. La lotta contro la violenza sulle donne? Ipocrisia di Stato.