L’agenda rossa di Borsellino e l’Italia degli smemorati

di ALDO BELLI – Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (Chiarelettere) con la prefazione di Marco Travaglio, un’altra pietra miliare italiana.

Ha fatto bene Chiarelettere a riproporre il libro di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza. La prima edizione era uscita nel giugno 2007, e torna in libreria con la nuova prefazione di Marco Travaglio: “Questo non è soltanto un libro su un agenda scomparsa. Questo è anche e soprattutto un libro su una storia scomparsa”.

Da quel 19 luglio 1992 nel quale Paolo Borsellino perse la vita a Palermo sono trascorsi vent’anni. Scrive Travaglio: “si fosse dedicato un decimo dello spazio riservato dalla televisione di regime al delitto di Cogne e ad altri diversivi, oggi sapremmo qualcosa di meno della signora Franzoni e qualcosa in più sulle origini della nostra Seconda Repubblica”. Certi libri hanno un valore civile, come i monumenti che permangono all’usura del tempo per conservare viva la memoria: assai più delle commemorazioni con la “passarella degli smemorati”. Conservare e celebrare hanno significati diversi: apparente sinonimi, indicano viceversa la differenza tra la storia in cammino e la “storia scomparsa”.

La storia scomparsa è quella dell’agenda rossa dove Borsellino annotava quotidianamente la grammatica della sua morte, il diario segreto della solitudine come inevitabile destino, consapevole di avere intrapreso una strada senza ritorno. La ragione si legge chiaramente nel discorso che tenne a Palermo un mese prima della fine, il 23 giugno 1992 di fronte a trentamila giovani provenienti da tutta Italia: “Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che correva, perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stato un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che l’ha generato”. Borsellino parlava dell’amico Giovanni e pensava alla sorte che aveva scelto anche lui nella vita.

Paolo Borsellino non si era salvato dal tritolo quel pomeriggio di luglio, ma la sua agenda sì: “Apre lo sportello posteriore destro della Croma blindata, e lì posa la borsa. Ciao a tutti, si congeda. Vado a prendere mia madre, devo portarla dal dottore”. La borsa rimase illesa dal tritolo, ma l’agenda dalla quale Borsellino non si separava mai scompare. Lo stile ricorda un’altra borsa, quella di Moro in via Mario Fani.

Giuseppe Lobianco (cronista di giudiziaria) e Sandra Rizza (per un decennio redattore giudiziaria dell’Ansa di Palermo), oggi collaboratori de Il Fatto Quotidiano, hanno cercato di ricostruire gli ultimi 56 giorni del magistrato antimafia: contando i giorni a ritroso, quindi, dal 23 maggio 1992 quando l’amico Giovanni Falcone, con la moglie e la scorta, saltarono in aria a Capaci. E lo fanno con un una semplicità disarmante, attraverso le testimonianze e i documenti, che lascia il lettore impotente di qualsiasi reazione emotiva, se non quella della pietà umana: l’unico sentimento che rimane di fronte alla realtà che appare umanamente impossibile, a partire dal flash del manto stradale sconvolto per una lunghezza di duecento metri, i muri lesionati dell’edificio, gli infissi di balconi e finestre divelti dalla deflagrazione dell’autobomba fino al quinto piano, i corpi carbonizzati, il corpo del giudice Borsellino con il braccio destro troncato di netto nel cortile del palazzo dove abitava la madre e la sorella, il fumo che oscura il cielo azzurro di Palermo come un’immagine sparata al telegiornale ripresa in una strada di Beirut. E invece, non siamo in medioriente, siamo in Italia alle soglie del nuovo millennio.

La pietà umana, tuttavia, quale forma ultima di impotenza, rivela l’effetto che Travaglio riassume nella comunicazione di regime. Se solo un decimo dell’attenzione rivolta alle “divagazioni” fosse stato dedicato in vent’anni a Capaci e via D’Amelio (come conservazione della memoria e non come celebrazione), forse sarebbe stato più facile tradurre il sentimento di pietà (e peggio ancora l’indifferenza, lo sdegno volatile) in sgomento dell’intelligenza, o detto altrimenti: in coscienza civile e politica del paese. Già il solo chiedersi in quale altro paese europeo sia mai andata in scena, e ripetuta, una tragedia del genere: perfetta come la scena di un film girata negli studi di Hollywood.

La semplicità degli autori di questo libro si fa disarmante proprio per le immagini che evocano la naturalezza del destino di Paolo Borsellino. Cose che messe in fila appaiono prima ancora che impossibili da credere, addirittura normali.

Che nella Croma in via D’Amelio c’era la borsa, compare per la prima volta in un verbale della Squadra Mobile di Palermo redatto alle 18.30, più o meno dopo un’ora che la strage si è consumata: ancora oggi non si sa esattamente chi la prelevò, sappiamo che prelevata alle 17.30 ricomparve poco dopo a bordo dell’auto da dove viene poi definitivamente rimossa. La Procura di Caltanissetta competente ad indagare sulla morte di Falcone viene definita dal presidente del tribunale “peggio di Forte Apache, qui siamo allo sbando. In una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte al Csm”. Il ministro degli Interni visionario: “Quando ho dato l’allarme sono stato considerato un visionario, se non peggio” (non so se rendo l’idea: è il ministro degli Interni che parla, non l’uscere). Solo per caso: Borsellino, ormai isolato e sovraesposto nella lotta alla mafia, scopre per caso che il suo procuratore capo gli ha taciuto di un rapporto del Ros che lo indica come bersaglio di nuovi attentati. Via D’Amelio senza protezione: gli appuntamenti fissi del giudice Borsellino durante la settimana a Palermo sono tre; il Palazzo di Giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac, e la visita all’anziana madre. Dopo la morte di Falcone “viene rafforzata la vigilanza in via Cilea, davanti all’abitazione, dov’è impossibile posteggiare, così come davanti alla chiesa. Ma gli agenti addetti alla sicurezza sollecitano invano l’istituzione di una zona rimozione in via D’Amelio, dove il magistrato va a trovare sua madre. In quella strada, un budello chiuso tra due palazzi, restano parcheggiate tre file di auto: ai bordi dei marciapiedi e persino al centro della carreggiata”. L’autobomba, una Fiat 600 imbottita di tritolo verrà parcheggiata tranquillamente davanti al civico 21 di via D’Amelio. La pista internazionale senza la mafia americana: 18 giugno 1992, il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti dichiara, sulla base di un rapporto dei Carabinieri, che “il tipo di delitto, il modo in cui è stato perpetrato, le tecniche usate… tutto punta verso una matrice non esclusivamente siciliana” (il rapporto riferisce anche che il giudice Borsellino “correrebbe seri pericoli per la sua incolumità”). Il procuratore distrettuale di Brooklyn, Charles Rose, il 26 maggio ha dichiarato che “il massacro” (di Falcone a Capaci) “è tutto italiano. La mafia americana, lo so per certo, disapprova. Perché le famiglie americane non avrebbero mai né tollerato né ordinato un gesto terroristico così vistoso e simbolico. La mafia non vuole simboli, vuole potere e soldi”. Il dilemma sulla pista internazionale viene risolto in Italia attribuendo al ministro degli Interni la qualifica di “pataccaro”. Per la Corte di Cassazione (il vertice della giurisdizione ordinaria italiana) la mafia non esiste: 25 giugno 1992, dice Paolo Borsellino “la Corte di Cassazione insiste sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste”.

Se ancora non fosse sufficiente, il 25 giugno 1992 Borsellino confida alla moglie: “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”. 13 luglio 1992: “Sono turbato, sono preoccupato per voi, perché so che è arrivato il tritolo per me e non voglio coinvolgervi” dice Borsellino ad uno dei poliziotti della sua scorta. Lo ripete anche a padre Cesare Rattobaldi: “Il tritolo è arrivato con un carico di ‘bionde’, l’ha scoperto la Finanza ed è arrivato per me”. Minacce di morte comunicate per posta: 16 luglio 1992, “il raggruppamento ROS di Milano invia un rapporto alla Procura di Milano e uno a quella di Palermo. L’informativa viene inviata per posta ordinaria e arriverà a Palermo dopo la strage di via D’Amelio”.

La tesi più probabile (che corrisponde alla versione del pentito che azionò il telecomando di Capaci) è che l’agenda rossa di Borsellino contenesse le prove della trattativa segreta avviata tra alte sfere dello Stato e i boss mafiosi, e l’intreccio con la mafia di apparati e vertici dello Stato. Ma come sappiamo, recentemente la Cassazione ha certificato che non vi fu mai alcuna trattativa tra lo Stato e la mafia. Per cui, anche Borsellino finisce nella lunga lista di quanti sono morti ammazzati senza un motivo preciso, insomma come dire? Morti per caso. E di governi nazionali dal 1992 ne sono passati, stavolta di tutti i colori.