di GIANCARLO ALTAVILLA – Culicchia racconta la breve vita di Walter Alasia, morto a vent’anni, in uno scontro a fuoco con la polizia.
Quello di Giuseppe Culicchia è un libro difficile: non da leggere, da scrivere. Sotto un titolo lieve, “Il tempo di vivere con te”, Culicchia racconta la breve vita di Walter Alasia, morto ammazzato, a vent’anni, in uno scontro a fuoco con la polizia.
Era il 15 dicembre 1976. Erano gli anni di piombo. Walter Alasia era un brigatista rosso. Ed era il cugino di Giuseppe Culicchia, che nel 1976 aveva solo 11 anni. Il libro racconta una storia intima che, come tante, la cronaca ha condannato al silenzio. Le stragi, gli attentati, gli assassinii degli anni di piombo hanno azzittito le storie altre, hanno reso irricevibile, provocatoria e politicamente scorretta ogni analisi e racconto di tutto quanto il terrorismo ha celato, annientato, reso irrilevante: il dolore delle vittime seconde, quello che è toccato ai familiari dei brigatisti, dei terroristi. Il loro è stato un dolore meritato, colpevole, inconfessabile perché senza diritto di asilo.
Non si può amare chi ha ucciso, non si deve. Non c’è spazio per il dolore di chi ha amato l’uccisore, perché anche il terrorista aveva chi lo amava e le sue azioni hanno prodotto dolore anche ‘intestìni’, come quello di Culicchia. Il terrorista è solo il mostro che dà la morte, il suo prima, il suo altro da sé, non sono niente, anzi, sono solo la dissimulazione di ciò che in fine si è rivelato essere. La famiglia del terrorista è solo il microcosmo in cui egli è stato allevato alla sua ignobile missione di morte; non ci sono madri e fratelli, padri e parenti, solo ombre, colpevoli di aver dato vita e accudimento al terrorista assassino.
Giuseppe Culicchia, impugnata delicatamente la penna, ha aperto un sipario, ha stracciato il velo pesante che, come pena accessoria, ha condannato all’esilio il dolore, la pena, la disperazione di coloro che dei terroristi sono stati inconsapevoli, ignari e amorevoli famigli. E ha scritto un libro bellissimo. Culicchia, quasi sussurrando, ha dato voce ai ricordi dell’amato cugino Walter e ha raccontato il dolore bambino per la sua morte, quello che l’ha travolto e rotto a undici anni, quanti ne aveva quando il suo eroe è stato ucciso.
Walter Alasia, ora lo sappiamo, prima di ammazzare ed essere ammazzato, è stato un buon ragazzo, allegro, gioviale e affettuoso, sempre pronto ai giochi col piccolo Giuseppe. E il breve tempo vissuto con lui è stato quello delle corse a perdifiato, delle biciclette lanciate sulle strade polverose della campagna torinese, dei calci al pallone come campioni invincibili. Nel dipanarsi dei venti anni della sua vita, Walter Alasia è stato più bambino e adolescente che uomo, più figlio e cugino che combattente; e la morte data e ricevuta è stata l’epilogo scellerato e luttuoso di una breve vita di affetti, di libri, di sogni.
Ora lo sappiamo; e se questo nulla risolve, niente risarcisce, né cambia, la confessione del dolore scritta da Culicchia merita il rispetto e la condoglianza.
Anni di piombo, lotta armata, violenza di strada, potere operaio: sono oggi parole lontane, estranee ad una società non più giusta e pacificata di quella di quarant’anni fa, ma solo più indifferente e individualista. Quelle parole sono il suono stonato di un periodo tanto vitale, quanto empio, in cui la violenza terroristica (non ancora definitivamente studiata), sapientemente mischiata alle stragi di Stato (non mai veramente indagate), ha distribuito dolore e morte.
Il libro di Culicchia è la storia di un amore fraterno che non sottace la crudezza del contesto, anzi narra anch’essa e la denuncia; se ne discosta solo un poco, per dare memoria della vita di un bambino e del suo Walter, che i colpi di pistola non hanno cancellato. Se lo chiede, Giuseppe Culicchia, perché il mite, sorridente e affettuoso Walter sia giunto a pensare che fossero le pistole lo strumento della liberazione sociale, e perciò a uccidere. Ma nella memoria intima del libro non vi sono risposte, solo rimpianti e dolore.
Ogni vita è un romanzo, a volte noir. Chi o cosa stabilisca il colore delle nostre vite non è facile dirlo. Certo, il terrorismo non è stato un fatto individuale, né soltanto una degenerazione etica e sociale, e le sue ragioni e il suo diffondersi nelle idee e nelle azioni di tanti giovani devono ancora oggi farci interrogare, memori delle parole corsare di Pierpaolo Pasolini, ‘li abbiamo solo condannati, gratificando la nostra coscienza con l’indignazione; e più forte e petulante era l’indignazione, più tranquilla era la coscienza’.
“Il tempo di vivere con te” è il libro per coloro che la propria coscienza amano smuoverla, agitarla, interrogarla.
Giancarlo Altavilla è avvocato amministrativista, cassazionista, professore a contratto all’Università di Pisa