di ALDO BELLI – CHIARELETTERE Rileggere Luca Rastello può essere un antidoto a un mondo della comunicazione che tutto scrive e nulla conosce.
Dopo avere letto (o riletto) Luca Rastello è difficile scrivere una recensione. La raccolta dei suoi scritti e reportage (1986-2015), Uno sguardo tagliente edizioni Chiarelettere, ha il pregio di farci sentire inadeguati. Luca Rastello nasceva a Torino il 9 luglio 1961 è lì se ne andò via prematuramente il 6 luglio 2015 ucciso dal cancro. Giustamente l’Enciclopedia Treccani gli ha dedicato una voce. Ha ragione Giorgio Morbello quando nella prefazione definisce il libro “un lungo saggio di giornalismo”. Ricorda il suo disappunto di fronte alla definizione di “giornalista e scrittore”: perché “l’idea stessa che Luca aveva di giornalismo” era la “narrazione del reale”; “rileggere Luca” scrive Morbello “può essere un antidoto a un mondo della comunicazione, a una narrazione, che tutto scrive e nulla conosce”.
Conoscere, appunto. Rileggendo Rastello, mi torna in mente quel giornalismo italiano con la firma in fondo all’articolo di Manlio Cancogni, o di Paolo Monelli inviato speciale de Il Resto del Carlino per raccontare il conflitto tra l’Unione Sovietica e la Polonia per il possesso della Lituania, o di Guido Piovene, Leonardo Sciascia, Gianni Brera, il Pasolini del Corriere della Sera, l’Arturo Carlo Jemolo che firma il servizio di apertura de La Stampa per la fumata bianca di Giovanni XIII, l’elenco sarebbe lungo: non era la “riserva indiana” degli scrittori e della cultura confinata nella Terza Pagina, e neppure si trattava di scrittori prestati al giornalismo; piuttosto, del giornalismo come “narrazione del reale” nel quale le parole acquistano un colore, dove le “pause, i particolari, i non-detti” come con Luca Rastello, anziché comporre una fotografia oggettiva mostrano “la realtà vista con i suoi occhi e raccontata con precisione e onestà, ma sempre con uno sguardo definito e dichiarato”.
Nelle quattrocento pagine di Uno sguardo tagliente, ricorre l’occhio posato sulle ferite del mondo: dalla Boemia di Hrabal all’Albania di Kadaré, “nello spazio jugoslavo si intrecciano mille fili, economici, politici; diplomatici; semplicemente umani; almeno la metà ci riguarda” e non solo per la nostra dignità di uomini, ma anche perché “bisogna sapere quanta mafia erzegovina c’è nel governo croato, quanta mafia è al potere in Serbia, quanti ‘imprenditori’ italiani si incontrano in quella che fu la Jugoslavia”. E ancora, scrivendo della tragedia jugoslava: “Ho l’impressione che nel ceto intellettuale trionfi una tendenza all’autoassoluzione per la propria incapacità di comprendere fenomeni contemporanei, assieme a una certa astrattezza di fondo, in virtù della quale l’eleganza di un’argomentazione ha la precedenza sulla sua verità…”. Gli scafisti di Valona, la Fame di Stato nelle strade di Pyongyang, le foreste insanguinate del Nepal, l’Africa, le vie dell’oppio…
Confrontando il periodo dell’Indice dei libri del mese – del quale fu redattore e poi direttore – con gli anni del Diario della settimana o de la Repubblica, ovvero la successione cronologica degli scritti, è palpabile il variabile temperamento che perimetra la critica letteraria senza concessioni al lettore. Benedetto Croce diceva che si dovrebbe ricordare ai critici il divieto affisso in alcune sale da concerto tedesche al tempo della sua giovinezza: Das Mitsingen ist verboten, Vietato cantare insieme. Luca Rastello materializza l’Urlo di Munch del nostro tempo di fronte alla liquefazione dell’intellettuale, ma a differenza dell’Urlo la sua natura partecipa al nostro dolore con una funzione consolatoria.
E’ anche questo il motivo per cui Uno sguardo tagliente si spoglia di ogni smalto celebrativo per indurci a pensare sulla ferita profonda che cantare insieme ha procurato sicuramente all’Italia: nella letteratura come del resto in ogni altra arte propria dell’ingegno umano, sciogliendo nell’acido il cordone ombelicale che unisce l’opera al lettore senza il quale la letteratura stessa muore e il lettore diventa merce egli stesso. Ecco, allora, spiegato Morbello quando scrive nella prefazione che “leggere Luca è sempre un’operazione che impone una forma di lavoro intellettuale”. Perché Das Mitsingen ist verboten, e Rastello cantava da solo eseguendo l’unica partitura possibile nelle sue recensioni: l’onestà di ciò che vedeva, ma insieme al rigore di trasferirlo attraverso l’unica forma che attribuisce la dignità di lettore. Non era il giudizio estetico né il didatticismo, non era il postulato di una storia letteraria senza nomi, non era il realismo critico di Lukács che valutava gli scrittori e le loro opere in base alla loro capacità di penetrare e muoversi verso il compimento di un’ideologia. Non era il riempimento compiacente di uno spazio bianco di giornale dove svanisce il libro quanto il lettore dietro la vanità di chi scrive.
La cultura, il pensiero, la conoscenza, non sono sinonimi di sofferenza, sono però come il cibo che per diventare vitale deve essere masticato e digerito: e l’alimento del corpo segue le medesime regole del nutrimento della mente, richiede una fatica degli organi, un movimento coordinato. Una forma di lavoro dei muscoli e delle ossa. “Una forma di lavoro intellettuale”. Senza questo “lavoro” l’uomo deperisce e muore. Ecco perché rileggendo Luca Rastino rimbalza l’eco dell’Urlo di Munch, volgendo lo sguardo tagliente sui giorni di oggi dove “tutto si scrive” (e vorrei aggiungere: tutto si legge) “e nulla si conosce”.
Nello stesso modo, Lo sguardo tagliente canta da solo sia che scriva su Kabul e il Venezuela o Il buio oltre la Fiat e la Genova del killer dei treni Donato Bilancia, I misteri della Val di Susa… Perché la cronaca in Rastello è la trama di una realtà che per essere vera può essere solo narrata. Solo la narrazione rende le parole tridimensionali sciogliendo il binomio fatto e opinione nel giornalismo dove l’oggettività dei fatti si rappresenta attraverso l’occhio di chi li guarda. “Fate ogni giorno qualcosa che vi spaventi”, è la frase amata da Luca Rastello con la quale Morbello nella prefazione del libro sintetizza quello che scrivere significava per lui: non l’essere temerari o cacciatori di emozioni forti, ma affrontare situazioni, temi o luoghi, che potessero in qualche modo fargli paura, perché avrebbero potuto mettere a rischio le sue idee o le sue sicurezze.
E in questo esercizio Luca Rastello si presenta come un grande maestro del giornalismo a cavallo del Novecento non solo italiano.