L’uomo è ciò che mangia (di Giovanni Bruno)

“L’uomo è ciò che mangia”: così il filosofo tedescoLudwig Feuerbach assegnava al cibo un fondamentale valore sociale e simbolico

Nel cibo non vi è solo l’aspetto nutrizionale, necessario ma non esclusivo: nel cosa (e nel come) mangiamo vi è una valenza culturale imprescindibile. Nei giorni scorsi è stata invece aperta l’ennesima polemica politica su un presunto tradimento della tradizione culinaria nostrana: il Salvin furioso si è scagliato veementemente contro la proposta dell’Arcivescovo di Bologna, oggi neocardinale, Matteo Zuppi di servire tortellini ripieni di pollo, anziché di prosciutto, a coloro la cui religione non permette di mangiare derivati del maiale (non solo musulmani, ma anche ebrei) durante la festa del patrono. Apriti cielo: sproloqui a non finire sulle nostre radici calpestate, sulla perdita di identità anche in cucina, e altre amenità del genere.
Eppure, se si riflettesse con mente sgombra, si comprenderebbe che l’identità (in qualsiasi campo, perfino in cucina) è frutto di mescolanza e incontro, non di purezza ed esclusione. Un solo esempio: cosa sarebbe del risotto alla milanese (quale piatto più identitario per i nordici milanesi?) senza un ingrediente fondamentale come lo zafferano, pianta originaria dell’Asia portata in Europa dagli arabi? Le civiltà, quando non si contrappongono ferocemente, riescono a fondere i propri diversi caratteri in armoniose culture, che possono col tempo diventare nuove identità. Anziché reagire con diffidenza e violenza per difendere abitudini sclerotizzate, dovremmo aprire la nostra mente e la nostra porta (e i nostri porti) a chi proviene da altri paesi, da altre culture, da altre tradizioni, perché ne avremmo sicuramente vantaggi inaspettati e sorprese molto più piacevoli di quanto non ci aspettiamo.
Un’ulteriore riflessione suscitata dal motto di Feuerbach riguarda il cosa e il come viene prodotto il cibo che troppo spesso, piuttosto che assaporare, ingurgitiamo: dal modo in cui si parla dell’alimentazione e con cui si consuma il cibo si comprende molto non solo delle nostre abitudini alimentari, ma dello stile di vita che abbiamo adottato. L’alimentazione presenta aspetti sempre più accentuati di spettacolarizzazione, quasi schizoide: da una parte, la pubblicizzazione e il consumo di cibo spazzatura in salsa Mc Burger o King Donald’s, dall’altra la trasformazione della ristorazione in un’agonistica gara tra chef, ristoratori, avventori …
Le multinazionali del cibo, che producono in filiere seriali sfruttando intensivamente suolo, animali, risorse idriche, perseguono l’estrazione del profitto ad ogni costo, anche distruggendo cinicamente ettari di foresta e uccidendo migliaia di persone che quelle foreste abitano e ne preservano l’equilibrio da migliaia di anni, mentre molti capi di Stato come Trump e Bolsonaro in Brasile difendono questi interessi criminali : di fronte alle mobilitazioni delle nuove generazioni probabilmente molte aziende correggeranno parzialmente le modalità di produzione del cibo per soddisfare il nuovo mercato, in rapida crescita, di consumatori bio-vegani, ma saranno cambiamenti solamente di facciata se non verrà intaccata la logica del profitto che sta alla radice del sistema di mercato globalizzato.
Anche l’idea agonistica dei contest televisivi è mistificante: la ricercatezza e la raffinatezza nell’elaborazione culinaria, coniugate con la spietata atmosfera della gara, allude al carattere ferino del neoliberismo, alimentando (è il caso di dirlo) la visione di un mondo fondato sulla legge inemendabile della guerra di tutti contro tutti e sulla libertà dionisiaca della speculazione, piuttosto che sulla solidarietà e sul riconoscimento dei limiti (etici, economico-sociali, politici, ambientali).
La produzione del cibo rappresenta oggi una preoccupazione sempre più sentita da settori ancora ristretti, eppure sempre più ampi, di persone giovani e meno giovani, alla ricerca di coltivazioni e allevamenti sani e biologici: una sensibilità che si va rafforzando e saldando alle preoccupazioni per l’ambiente e per i cambiamenti climatici, che anela a stili di vita meno consumistici e maggiormente a contatto con la natura e la terra.
Concludendo, dovremmo ripensare radicalmente il nostro modello di produzione e di consumo del cibo, così come rivedere profondamente i criteri di identità e tradizione, in cucina come più generalmente nella società, se vogliamo affrontare, senza esserne travolti, le sfide (e il conto) che il nuovo secolo inesorabilmente ci presenterà.