Piazza Fontana, cinquant'anni fa

Il modo in cui si sta ricordando l’eccidio di piazza Fontana di 50 anni fa non mi piace. La ricostruzione “storica” di Paolo Mieli su Rai 3, ad esempio, appare faziosa e insieme ipocrita. Ma anche molti  articoli di giornale rivelano una incapacità di storicizzare eventi che, per altro, ebbero un impatto emotivo grandissimo che rivive ancora nei ricordi di chi ha vissuto quei giorni.
Cinquant’anni  fa, quando seppi di quella  quella tragica notizia dalla radio in macchina, rimasi attonito e sconvolto. Ero molto impegnato con pochi amici per la inaugurazione della prima sede del Centro Pannunzio in via Bava 27, non lontano da Palazzo Nuovo dove si erano trasferite le Facoltà Umanistiche. Ero in contatto con Alberto Ronchey, allora direttore de “La Stampa”, che aveva assicurato la sua presenza e soprattutto il suo appoggio ed ero in contatto con Arrigo Olivetti che aveva consentito l’apertura della sede. Rimasi attonito e sconvolto. All’improvviso smisi di pensare alla nuova sede in allestimento. La violenza brutale stava dando un colpo mortale non solo alla vita democratica, ma alla vita tout- court, alla vita di gente normale. La ferocia era tale che essa non mi consentì di fare altri ragionamenti. Le violenze sessantottine e le stesse violenze dell’autunno caldo del ‘69 scomparivano di fronte a piazza Fontana. Cercai di farmi un’idea solo successivamente. Fu illuminante ciò che mi disse Ronchey in modo lucido e freddo. Piazza Fontana segnò la fine irrimediabile degli Anni 60, i migliori del secolo scorso. Anni di pace ,lavoro, benessere diffuso, democrazia liberale. Iniziarono invece gli anni del terrore e della violenza senza fine e della faziosità senza limiti, quelli degli opposti estremismi, come li definì Spadolini. Due giorni dopo il 14 dicembre venne inaugurata la sede del Centro Pannunzio e il Questore di Torino per l’interessamento di Olivetti consentì la cerimonia, malgrado il divieto in tutta Italia di tenere manifestazioni. Fu un riconoscimento importante al nuovo Centro che si richiamava alla lezione di libertà, di tolleranza e di democrazia di Pannunzio. Toccò a me giovanissimo il discorso principale di quel  14 dicembre pannunziano  e parlai con il cuore gonfio di dolore e di sdegno, dedicando quel giorno alle vittime di piazza Fontana. Mi sentii all’improvviso molto  più vecchio della mia età. Certo, però, non pensai a stragi di Stato come di lì a poco si cominciò a parlare. Io continuai ad avere fiducia nello Stato democratico e non credo di aver sbagliato. Sconfitto il terrorismo rosso e nero, riprendemmo la via della democrazia nella libertà. L’Italia seppe riprendersi. La Magistratura sulla tragedia di piazza Fontana non fu all’altezza, molti opinionisti scrissero cose ignobili come i firmatari del manifesto contro il commissario Calabresi, accusato della morte di Pinelli considerato inizialmente responsabile  della bomba di Milano. Furono anni difficili, durissimi, davvero di piombo. Come ha scritto Gianni Oliva anni non solo di piombo, ma anche di tritolo nei quali il nero dei neo-fascisti si confuse con il rosso dell’estremismo di sinistra. Fu compito dei democratici come Carlo Casalegno che pagò con la vita il suo coraggio, denunciare i responsabili senza distinzioni false ed ambigue. Guido Calogero nei primi anni 70 sosterrà incredibilmente che andava modificato il giudizio rispetto alle diverse violenze  in base al loro colore politico. Un errore in cui cadranno in molti.  Un colloquio illuminante  con Ronchey e poi con Casalegno mi vaccinò rispetto agli ideologismi e mi indicò la strada da seguire. La violenza andava combattuta a prescindere dalla sua matrice ideologica come male oscuro della democrazia e della stessa vita civile.