di ALDO BELLI – Le rivelazioni del libro edito da Chiarelettere, scritto da un protagonista della stagione di Falcone e Borsellino.
La prima cosa che colpisce è la copertina sbiadita. Mostra tre uomini giovani in giacca e cravatta: Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, sorridenti; il terzo è Pino Arlacchi con lo sguardo sospeso, l’autore del libro “Giovanni e io” appena uscito nelle librerie. La dimensione umana di Falcone e Borsellino. Arlacchi li restituisce alla verità. Gioie e sconforto, speranze e delusioni, compongono il ritratto di due anti-eroi. Un libro meritevole di essere letto per chi voglia conoscere – o conoscere meglio – l’Italia di ieri, ma anche capire quella di oggi.
Giovanni ha 41 anni, Paolo uno in meno. Pino è un giovane docente all’Università della Calabria, conosce Falcone all’inizio del 1980, presentato dal giudice Rocco Chinnici (un altro dei numerosi nomi scolpiti sull’Altare della Patria anche se non si vedono): aveva costituito un gruppo di studio sulla mafia all’interno del dipartimento di Sociologia (anche questo un evento straordinario, quando ancora si sosteneva che la Mafia non esisteva). Quella con Giovanni sarebbe diventata la trama di due vite parallele, e le memorie di Arlacchi costituiscono oggi un pezzo della storia d’Italia vista da dentro, forse per la prima volta con tanta perizia di particolari e rivelazioni.
“Ho deciso di uscire allo scoperto poiché credo che sia venuto il momento di collocare questa grande figura nel contesto della storia nazionale”. Per farlo, Arlacchi è costretto ad inquadrare Falcone in un film che sembra perdersi nell’impossibile realtà di un paese che è difficile credere vero. Arlacchi è un esempio di intellettuale militante secondo la migliore tradizione italiana: dove “militante” nel suo caso significa principalmente l’attività di studioso del fenomeno mafioso grazie alla quale Falcone potrà giungere nel 1987 al successo del maxiprocesso (è straordinariamente interessante il modo con il quale fu costruito giorno dopo giorno l’impianto accusatorio che culminerà in 19 ergastoli e 344 condanne, segnando una svolta epocale nella lotta alla criminalità mafiosa).
Anche Arlacchi, in verità, appare un anti-eroe. Paradossalmente, tra tutti coloro che incontriamo nel libro caduti sotto il fuoco mafioso, manca un eroe. Meriterebbe un capitolo. Uomini e donne con la toga o con una divisa, o impegnati civicamente, pure dal pulpito di una chiesa, appaiono anacronistici, disallineati con il proprio tempo (vorrei aggiungere con il proprio paese): incollando le loro vite una di fianco all’altra viene fuori quell’Italia con il senso del dovere e dello Stato abitualmente dimenticata.
Risolviamo subito un punto. La memoria di Arlacchi è terribile per l’Italia che documenta, e potrebbe sollevare il dubbio di autenticità se non provenisse da un’autorità come la sua: il suo racconto viaggia in presa diretta. Oggi Arlacchi è presidente dell’Associazione Mondiale per lo Studio della Criminalità Organizzata. Ha redatto il progetto esecutivo della Divisione Investigativa Antimafia, collaboratore di Chinnici Falcone e Borsellino, è stato vicesegretario generale delle Nazioni Unite, direttore esecutivo dell’United Nations Office on Drugs and Crime. Ha promosso il primo e unico trattato internazionale contro le mafie firmato a Palermo da 124 paesi in nome di Giovanni Falcone, otto anni dopo la strage di Capaci. Detto ciò…
“Il segreto dei segreti: l’appartenenza attiva a Cosa nostra di Giulio Andreotti“ viene ricostruita con nomi, date e riferimenti della CIA, che banalizzano il gossip del famoso bacio mafioso.
Roma centro criminale. “Divenne chiaro che la resa finale non sarebbe avvenuta in Sicilia, ma a Roma, nel quartier generale della grande criminalità… Falcone era consapevole dei pericoli che correva trattando con i vari Giuda del Consiglio superiore della magistratura, della Procura di Palermo e dell’Associazione nazionale magistrati. Per non parlare dei giudici delinquenti romani che ruotavano intorno ad Andreotti”.
Le strutture di polizia. “I delitti Scaglione, Giuliano, Basile, Costa, Russo, Chinnici, Cassarà, sono scaturiti ciascuno da una fuga di notizie che ha esposto la vittima alla rappresaglia mafiosa… La Criminalpol fu la fonte di fuga di notizie…”
La Banca d’Italia e gli affari mafiosi. “La Banca d’Italia difese questo riciclaggio ante litteram ribadendo che le banche non erano tenute a svolgere compiti di polizia”.
Il sabotaggio di Stato. “La sconfitta più bruciante di quell’anno fu il sabotaggio del pentimento di Gaetano Badalamenti. Un’impresa condotta dal prefetto Domenico Sica…. Se avessimo considerato l’Alto commissariato” antimafia “una dannosa alterità da tenere a distanza e combattere senza remore, forse non avremmo pagato i costi altissimi che avevamo pagato”.
Questa era l’Italia. Ma una domanda sorge spontanea: com’è possibile che nessuno in quell’Italia si sia mai accorto di niente? (un solo esempio: il Csm è presieduto dal Presidente della Repubblica). Non ricordo neppure sollevamenti di popolo o in Parlamento per difendere Giovanni Falcone quando doveva contrastare la Mafia di Stato, né quando finì umiliato e offeso dopo il successo del maxiprocesso (puntualmente ricordato da Pino Arlacchi).
In un paese sano, le verità che oggi Arlacchi rivela – o anche solo sistematizza – scatenerebbero la reazione dell’opinione pubblica. Ma questa reazione non accadrà, poiché il pensiero critico in Italia è stato cancellato e ridotto ad esigue riserve indiane (e purtroppo anche dal partito al quale Arlacchi appartiene, il Partito Democratico). Tutt’al più – politici, falsi intellettuali, giornalisti del copiaincolla – si confinerà questo libro di memorie nell’ambito dei libri di storia, come cosa lontana: evitando in questo modo, di fare i conti fino in fondo con un sistema (giacché di questo si tratta), di sottogoverno oltre che di governo, le cui cellule tumorali non sono mai del tutto scomparse.
Un libro straordinario. Le uniche smagliature si rinvengono nell’introduzione, dove Arlacchi sconfinando dal proprio campo d’indagine si lascia, forse, trasportare dalla passione dell’uomo politico. L’analisi storico-politica non pare ugualmente solida quanto quella giudiziaria e criminologica. Quando Arlacchi, ad esempio, afferma: oggi “Palermo è una città più sicura di Milano” non ho motivo per dubitare. Ma laddove sostiene che “grazie all’antimafia e a Mani pulite, l’Italia non è più un paese a civiltà limitata” incorre in un’analisi politica frettolosa, senza niente togliere ai risultati di legalità prodotti dall’antimafia e da Mani Pulite.
La Storia è una materia complessa. Il riduzionismo andreottiano – al di là di questo libro – rievoca l’anima della sinistra italiana. E’ lo stesso Arlacchi, ad un certo punto, a confessare che uno dei limiti che aveva finito per metterli fuori strada era stato “non essersi resi conto che Andreotti non bastava a spiegare per intero l’impunità e la forza della Mafia”.
Per lo storico (attitudine diversa dal sociologo) è sempre difficile ridurre le responsabilità di un fenomeno collettivo al singolo soggetto: sarebbe come affermare che la responsabilità storica del fascismo in Italia è di Mussolini, senza sminuire il ruolo capitale che egli svolse; o che il capo della corruzione politica in Italia fu Bettino Craxi. Si tratta, allora, di capire quanto di quel sistema (di governo e di sottogoverno) è rimasto sostanzialmente intatto: anche senza Andreotti, i vari Totò Riina, Badalamenti, eccetera. La Mafia è stata decapitata in Sicilia con il maxiprocesso, la svolta epocale è indiscutibile: ma è lecito chiedersi in che modo e con quale tensione governativa si è contrastata l’evoluzione di altre mafie in Italia.
“Mi sono convinto che il movimento antimafia dell’ultimo ventennio del Novecento può essere considerato come la tappa conclusiva della formazione dello Stato nazionale” e più avanti “Questi grandi italiani” (Falcone, Borsellino, Costa, Terranova, La Torre e tanti altri magistrati e uomini delle forze dell’ordine uccisi) “hanno completato la costruzione di un decente Stato di diritto espellendo l’illegalità dal centro del potere nazionale e dal dominio di larghe parti del Mezzogiorno”.
Che l’Italia sia oggi uno “Stato nazionale” (paragonabile cioè alla Francia o all’Inghilterra, ad esempio) è ancora tutto da dimostrare: sempre che si consideri la coscienza nazionale di un popolo quale soggetto attivo della vita democratica, e si consideri come discriminante il senso di appartenenza teso al bene comune anziché l’individualismo già denunciato dal Guicciardini.
Che l’Italia sia “uno Stato decente di diritto” è negato da mille semafori rossi, a partire dall’incertezza della Legge e dalla barbarica durata dei processi. Quanto “all’espulsione dell’illegalità dal centro del potere nazionale” – attualmente espanso dal centro per quante sono le Regioni – temo si tratti ugualmente di una frettolosa conclusione politica, sempre che il succo relativo alla corruzione di Stato corrisponda al principio di trasparenza e produttività nell’uso del pubblico denaro, dove l’interesse privato non si concretizza unicamente nelle tangenti.
Questa minima lettura storico-politica, in ogni modo, non inficia assolutamente il valore morale e culturale, straordinario, di questo libro edito da Chiarelettere. E autorizza a considerare il professor Arlacchi un grande italiano.
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