Referendum lavoro 2025 Intervista all'avvocato Michele Palla

REFERENDUM. Scheda grigio il lavoro precario

di Beatrice Bardelli – Intervista all’avvocato Michele Palla, giuslavorista e docente di “Diritto del lavoro” all’Università di Pisa.

Domenica 8 e lunedì 9 giugno i cittadini italiani aventi diritto al voto sono chiamati a partecipare ai referendum popolari abrogativi (articolo 75 della Costituzione) su 5 quesiti in materia di disciplina del lavoro e cittadinanza. I seggi saranno aperti domenica 8 giugno dalle ore 7 alle ore 23, e lunedì 9 giugno dalle ore 7 alle ore 15. I referendum, indetti con  Decreti del Presidente della Repubblica, sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale n. 75 del 31 marzo 2025. Questa volta ci occupiamo del terzo quesito sul lavoro promosso dalla CGIL e sostenuto da vari esponenti coordinati da +Europa sui contratti a termine. 

La voce della CGIL

Nel terzo quesito (scheda n.3, colore grigio) si chiede la riduzione del lavoro precario: “In Italia circa 2 milioni e 300 mila persone hanno contratti di lavoro a tempo determinato. I rapporti a termine possono oggi essere instaurati fino a 12 mesi senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo. Rendiamo il lavoro più stabile. Ripristiniamo l’obbligo di causali per il ricorso ai contratti a tempo determinato”. Lo ha gridato forte Maurizio Landini intervenuto a Pisa in piazza Vittorio Emanuele il 3 maggio scorso a sostegno di 5 SI ai referendum: “Se noi raggiungiamo il quorum le persone che oggi sono assunte con forme di lavoro precario, a partire dal contratto a termine, il giorno dopo non potranno più essere assunte con il contratto a termine perché il contratto a termine tornerà ad essere una cosa particolare e non la norma!”.

Per spiegare meglio ai nostri lettori l’importanza di votare SI al quesito n. 3 che chiede l’ “Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi» (“Volete voi che sia abrogato il d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, avente ad oggetto “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183” limitatamente alle seguenti parti…”) abbiamo intervistato l’avvocato Michele Palla, giuslavorista e professore a contratto di “Diritto del lavoro” presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Pisa oltre che autore di numerose pubblicazioni in materia di diritto del lavoro e sindacale su numerose riviste scientifiche quali “Rivista italiana di diritto del lavoro”, “Giustizia civile”, “Il giurista del lavoro”, “Labor”.

Intervista all’avvocato Michele Palla

D. Vuole spiegarci in che cosa consiste un contratto a termine e l’origine della sua applicazione?

R. Il contratto a termine o a tempo determinato è un contratto che è sempre stato presente nella legislazione del lavoro, sin dal codice civile del 1942. Una delle prime leggi speciali in materia di lavoro, dopo la caduta dell’ordinamento corporativo fascista e dopo la Costituzione, nel ’48, fu una legge del 1962 che disciplinò il contratto a tempo determinato, la n. 230 del 1962, e dunque addirittura prima della legge di disciplina sui licenziamenti che sarebbe arrivata solo nel 1966. Fino ad allora, i licenziamenti erano disciplinati dal Codice civile ed erano liberi, senza obbligo di motivazione.

Nel 1962 viene fatta la prima legge sul contratto a termine che consentiva la possibilità di stipulare tali contratti come eccezione ai contratti a tempo indeterminato e solo ed esclusivamente nei rigidi casi previsti dalla legge. E questo perché il contratto a termine, per definizione, ha un tempo definito e quindi non può garantire al lavoratore quella liberazione dal bisogno che ottiene attraverso la percezione di uno stipendio come avviene invece nel contratto a tempo indeterminato che, nell’impostazione classica del diritto del lavoro, avrebbe dovuto accompagnare il lavoratore in tutto il suo percorso lavorativo, dalla gioventù alla pensione: perché la retribuzione, frutto del rapporto di lavoro, ha un compito addirittura sociale come stabilisce l’articolo 36 della Costituzione, là dove dice che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione “sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

E’ chiaro che con il contratto a termine la libertà e dignità hanno un orizzonte limitato e dunque questo tipo di contratto era allora limitato solo ed esclusivamente a casi specifici, ad esempio per attività lavorativa stagionale, sostituzione di lavoratori assenti, esecuzione di lavori straordinari o occasionali, doveva essere fatto per iscritto e doveva indicare esplicitamente la durata del contratto e la motivazione per la quale veniva stipulato. Se questa non coincideva con quella prevista dalla legge il lavoratore poteva rivolgersi ad un giudice che convertiva il contratto di lavoro in tempo indeterminato.

Tuttavia, negli anni, l’evoluzione delle esigenze delle aziende ha posto il problema che quelle poche ipotesi previste dalla legge 230 non coprivano tutte le loro esigenze di tipo transitorio.

Negli anni ’80, quindi, il legislatore integrò le causali previste dalla legge del 1962 con ulteriori fattispecie e con quelle previste dai contratti di lavoro collettivi. Si arriva così al 2001, con il Decreto legislativo n. 368, che, in attuazione di una direttiva comunitaria (1999/70/CE, accordo quadro sul lavoro a tempo determinato) stabilì che il contratto a termine poteva essere stipulato in presenza di tre tipi di ragioni: tecniche, organizzative, produttive. Tre macromotivazioni generaliste alle quali si accompagnava sempre la quarta, quella delle ragioni sostitutive, che, al momento della stipula del contratto a termine da farsi in forma scritta e prima che il lavoratore inizi a lavorare, dovevano essere specificate. Ad esempio “ragioni produttive consistenti in…” e doveva essere scritto in che cosa consistevano. Purtroppo, proprio la genericità delle tre motivazioni “tipo”, spesso inserite nei contratti senza la necessaria specificità, ha portato ad un grande contenzioso sui contratti a termine.

D. Oggi è sempre così?

R. L’obbligo delle motivazioni tecniche, organizzative o produttive previste dalla legge 368 del 2001 è stato modificato dalla cosiddetta Legge Fornero, la n. 92 del 2012, che, per la prima volta stabilì che il primo contratto a termine tra due parti di durata non superiore a 12 mesi potesse essere stipulato liberamente. Ovvero, ferma la forma scritta tra datore di lavoro e lavoratore, non era più prevista la motivazione per il primo contratto e fino a 12 mesi. La svolta decisiva arriva nel 2015 con il Jobs Act, il Decreto legislativo n. 81, che per la prima volta liberalizza totalmente il contratto a termine che può durare fino a tre anni, con al massimo 5 proroghe o 5 rinnovi, in un arco temporale di 36 mesi. Intendendo per “proroga” quando il contratto a termine continua dopo la scadenza (e con limiti di tempo comunque prestabiliti) e per “rinnovo” quando, finito il contratto, se ne stipula un altro.

D. Dal 2015 ad oggi è cambiato qualcosa?

R. Il Jobs Act esiste tuttora ma ha subito successive modifiche.

Ad esempio con il Decreto “Dignità”, legge n. 96 del 2018, viene ridotta la durata massima da 36 mesi a 24 mesi mentre la libertà di stipula ovvero senza motivazione riguarda soltanto il primo contratto fino a 12 mesi. Se il contratto dura oltre 12 mesi, o comunque nel caso di rinnovo o proroga che superi l’anno, tutti devono recare una motivazione che poi deve avere attuazione pratica.

La giurisprudenza ha cercato di limitare la portata di questa liberalizzazione perché tutte le leggi, anche il Jobs Act, hanno sempre detto che il contratto ordinario o “comune” di lavoro deve essere quello a tempo indeterminato, ribadendo la natura speciale del contratto a termine. Ci sono state sentenze che hanno sanzionato i datori di lavoro che hanno sfruttato il contratto a termine per far fronte ad esigenze non temporanee o contingenti ma ad esigenze ordinarie della loro impresa.

Il contratto a termine doveva servire per cose eccezionali, temporanee. Oggi la disciplina è quella del Jobs Act (d. Lgs. n. 81/2015), come però integrato dal Decreto Dignità, il Decreto legge n. 87 del 12 luglio 2018, anche se ha subito altre, successive, modifiche per quanto riguarda le causali. La disciplina di cui discuterà il referendum, oggi, è quella dell’articolo 19 del D.L. 81/2015 (Jobs Act) più volte manipolato e modificato fino alla L. n. 15/2025.

D. Cosa dice oggi la disciplina del contratto a termine?

R. Che il primo contratto può essere libero, ovvero senza obbligo di motivazione, fino a 12 mesi e può durare al massimo 24 mesi. Se vengono superati i 12 mesi o se si rinnova un contratto a termine già concluso, se si fa un secondo contratto a termine, le motivazioni sono necessarie. E dove si trovano queste motivazioni? O nei contratti collettivi stipulati dai sindacati oppure, se i contratti collettivi non prevedono ipotesi nelle quali si può stipulare un contratto a termine, la causale, il motivo, può essere stabilito direttamente tra le parti ma deve trattarsi sempre di una esigenza temporanea. In pratica, se il contratto collettivo non prevede nulla in materia di contratto a termine, le parti possono indicare le ragioni tecniche, organizzative o produttive che legittimano il contratto a tempo determinato.

D. Il Referendum cosa mira a colpire?

R. Il primo aspetto che il Referendum dell’8 e 9 giugno vuole eliminare è la possibilità del contratto libero anche per il primo contratto, inferiore a 12 mesi, che deve essere motivato e le motivazioni possono essere soltanto quelle della legge oppure quelle previste dai contratti collettivi che nascono dall’accordo tra sindacati dei lavoratori e sindacati delle aziende. Il secondo aspetto che il Referendum vuole andare a colpire è escludere la possibilità che siano le parti a stabilire le motivazioni del contratto ovvero a stabilire le esigenze tecniche, organizzative e produttive che legittimano il contratto a termine.

D. Cosa cambierebbe se il Referendum passasse?

R. Se il Referendum passasse non ci sarebbe più il contratto libero fino a 12 mesi e le motivazioni per cui si può fare un contratto a termine saranno solo ed esclusivamente quelle stabilite dalla legge o dal contratto collettivo. Al di fuori di queste non si può stipulare un contratto a termine, pena la sua trasformazione in contratto a tempo indeterminato.

Questo mira a garantire che il contratto a tempo determinato sia utilizzato effettivamente ed esclusivamente per ragioni temporanee e non ad esempio per provare un lavoratore, spesso, ad esempio a tre mesi. Oggi il datore di lavoro non è obbligato a dare alcuna motivazione, è del tutto legittimo farlo liberamente. In quei 3-6 mesi provo il lavoratore, se mi sta bene lo confermo oppure chiudo il rapporto ed ognuno per la sua strada. Oggi questo è legittimo ma dopo il Referendum sarebbe impossibile. Perché il contratto a termine va sempre motivato e le motivazioni vanno trovate o nella legge, l’articolo 19 e seguenti del D.lgs 81/2015, o nei contratti collettivi.

D. Lei cosa ne pensa dei contratti a termine?

R. Penso che ci siano delle controindicazioni importanti. Ad esempio a livello di precarietà. Il lavoratore sa che alla fine del contratto a termine verrà mandato via e quindi, magari, durante il periodo di lavoro non esercita i suoi diritti, non fa valere le sue ragioni nella speranza che questa sua disponibilità, questa sua arrendevolezza, venga ben considerata per una proroga o addirittura per la conversione a tempo indeterminato.

Ci sono inoltre questioni sulla sicurezza, perché un lavoratore che rimane in un’azienda qualche mese non ha modo di apprendere con piena consapevolezza tutti i rischi collegati al lavoro, soprattutto se cambia più volte azienda e si trova catapultato, 3 mesi da una parte, 6 mesi dall’altra, in una nuova realtà organizzativa e produttiva con nuovi macchinari e con il rischio di infortuni – anche se questo rischio, ovviamente, non sarebbe superato dall’obbligo di motivazione.

Infine, un lavoro precario dà una sicurezza altrettanto precaria. Uno sa già che lo stipendio lo avrà solo per qualche mese e che, se andasse a chiedere un mutuo o un prestito in banca sarà difficile se non impossibile ottenerli. Dopodiché, se un’azienda ha veramente un’esigenza di una prestazione di lavoro per pochi mesi non avrà difficoltà a specificarla nella lettera di assunzione.