di DANIELA LUCATTI – Le considerazioni di Concita e della presidente delle Pari Opportunità Angiolini sono intrise di cultura patriarcale.
Saman Abbas era una ragazza pakistana di 18 anni, scomparsa da Novellara (Reggio Emilia) dopo essersi opposta a un matrimonio combinato, e per questo è stata uccisa.
E’ tristissimo e sconfortante il renderci conto di quanto siamo ancora lontane dalla presa di coscienza di che cosa sia la violenza di genere e da cosa sia determinata. Ed è cosa ancora infinitamente più triste, quando siamo costrette a vedere che sono le stesse donne a ragionare secondo lo scenario della millenaria cultura patriarcale, ma soprattutto quando, a farlo, sono le stesse donne che si manifestano come femministe o che comunque sono in prima linea nel contrasto alla violenza di genere.
Non è difficile capire i meccanismi che generano prese di posizione di questo tipo e da dove trovino le loro radici, ed è ovvio dedurre che le stesse, pur se non in malafede, siano tuttavia ancora (anche se con dei distingui tra loro) mancanti di una vera formazione sul e nel campo del loro operare.
Di violenza di genere ormai tutte e tutti fanno a gara a parlare e tutti/e sembrano diventati/e esperti mentre invece, evidentemente, come le case delle donne e i centri antiviolenza da queste gestiti ci insegnano, il percorso di vera consapevolezza e competenza passa da una realtà molto complessa e impegnativa. Una realtà che si confronta ogni giorno con studi approfonditi atti ad acquisire saperi in ambito interdisciplinare sulla storia delle donne e del femminismo, con gruppi di riflessione che producono cultura, con la pratica della relazione e del partire da sé, e soprattutto con il confronto continuo e trentennale con le donne che vengono accompagnate (nel rispetto dei loro tempi e decisioni), verso un percorso di autoderminazione e uscita dal sopruso.
Questo per far capire che non è facile affrontare con cognizione di causa qualcosa di così tremendo come l’uccisione di Saman.
Sono certa che le considerazioni di Concita e l’infelicissima uscita della presidente delle Pari Opportunità Angiolini, siano valutabili come punti di vista intrisi (evidentemente loro malgrado e nella loro evidente inconsapevolezza) di cultura patriarcale. La levata di scudi relativa alla madre di Saman, sottintendente madri che non si ribellano, che non proteggono, che colludono con la violenza maschile e contro il silenzio su questo caso “delle zoccole femministe di sinistra”, è purtroppo comprensibile.
Io non intendo infierire perché è solo la comprensione reciproca tra “sorelle” che può aiutarci a non dividerci, ma semmai a crescere insieme prendendo ciascuna qualcosa dall’altra e ascoltandoci.
Queste esternazioni rimangono però, comunque, molto gravi non solo perché provengono da donne, ma perché, come ho detto, provengono da donne pubbliche, conosciute e ri-conosciute come donne impegnate nella lotta contro la violenza di genere e che dovrebbero, pertanto, conoscere e capire le conseguenze della violenza stessa e i comportamenti che ne derivano. Conseguenze non inventate dalle “zoccole femministe di sinistra”, ma riscontrabili all’interno di tutte le linee e protocolli dei più importanti organismi internazionali.
Allora, cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Per primo, proviamo non a giustificare, ma a capire la situazione della madre di Saman.
Questa è una donna nata in una cultura (in ordine temporale) più arretrata della nostra (che pure è lontanissima, nonostante la legislazione, dall’aver interiorizzato una cultura definibile come paritaria) dove le donne non hanno nessuna possibile decisionalità. Nata e cresciuta in un contesto dove questa è la legge sia divina che umana, non contrattabile né discutibile.
Non esiste probabilmente, nella mente della maggioranza di queste donne, ancora, nemmeno la possibilità di potersi sentire autorizzate a contrastare “la legge del padre padrone”. Padrone, appunto; e un padrone ha ogni diritto, compreso quello di vita e di morte. Del resto perché non si ribellavano le antiche madri romane o greche al diritto paterno di decidere se tenere o uccidere i loro neonati? Secondo voi erano consenzienti? Perché, come ho detto altre volte in altri articoli, non si ribellavano e non si ribellano gli eserciti mandati a morire per interessi non certo loro né della loro classe di appartenenza, quando hanno in mano armi date loro dallo stesso padrone-re-stato o altro che li manda alla morte per i propri fini?
Non esiterebbero ingiustizie o soprusi se non fosse indotto nelle persone, in alcune categorie e/o contesti, un sentimento di impotenza, di non possibile scelta, di obbligo-dovere di obbedienza tanto da impedire, tramite la trasmissione normativa della cultura dominante, la possibilità di pensarsi liberi/e.
Ora questo, (la convinzione di possibile libertà) per quanto riguarda le donne (la parte del mondo da sempre resa inferiore e subordinata) nel nostro contesto occidentale è divenuta possibile anche se, come possiamo vedere, tra dire e fare c’è di mezzo il mare. In culture ancora più arretrate (badiamo bene, non inferiori o peggiori ma solamente più arretrate sul piano dei diritti) per tante donne il prendere parola, l’opporsi, è ancora un pensiero impensabile. La violenza psicologica, il terrore indotto e la paura, annichiliscono, bloccano, rendono impotenti, paralizzano. L’obbedienza alle regole del padre padrone è quella che le donne sono state obbligate ad interiorizzare per secoli, per poter sopravvivere e per sentirsi giuste e accettate nelle loro comunità, costrette e/o convinte che questa fosse-sia l’unica strada anche per la loro prole.
Il patriarcato si è tramandato attraverso le donne perché questo è ciò che dovevano-devono fare, avendo loro il compito di allevamento, regolato da precisi dettami maschili. Queste, le giuste analisi per cercare di comprendere la madre di Saman: una donna che sicuramente non ha mai potuto pensarsi come essere umana degna di poter gestire la propria esistenza, perché l’esistenza delle donne non appartiene a loro.
Non penso sia buonismo (ammesso sia qualcosa di negativo) cercare di immedesimarsi in ciò che può aver provato, che prova e che proverà questa madre.
Rispetto invece al silenzio delle “zoccole femministe di sinistra” cosa voleva, la presidente delle Pari Opportunità, che dicessimo? Noi (e mi permetto di parlare al plurale, sicura di essere condivisa dalle mie compagne “zoccole”) che è colpa dell’Islam? Che la violenza sulle donne viene compiuta dagli stranieri e soprattutto dai mussulmani? Che questo femminicidio è più grave o diverso dai nostri? Che è imparagonabile a ciò che accade da noi dove, da quando le donne hanno iniziato ad azzardarsi a dire no, vengono uccise senza segnali di remissione ad un ritmo di una ogni 2-3 giorni? Che è più grave l’uccisione di una donna che si oppone ad un matrimonio forzato che quello di una che vuole lasciare un compagno liberamente scelto?
Nel primo caso non c’è colpa, mentre in fondo nel secondo sì perché la donna era all’inizio consenziente? Per questo il femminicida ha meno responsabilità? E quando insieme alla compagna uccidono anche le figlie/i (questo anno mi sembra ci siano stati ben tre casi) è così diverso? I nostri autoctoni sono meno colpevoli o sono tutti bipolari in preda ad improvvisi raptus mentre gli islamici (ma anche gli stranieri in genere) sono solo assassini?
La voce delle “zoccole” alle quali appartengo con orgoglio, è sempre stata ed è la stessa, ed è la condanna, sempre e comunque, del dominio e della violenza del sistema patriarcale universale, anche se temporalmente e localmente diversamente declinato.
Rispetto poi al chiedersi di Concita sul perché Saman sia tornata in famiglia pur consapevole del pericolo, ancora niente di nuovo sotto il sole. Saman, come quasi tutte le vittime di femminicidio, è stata uccisa perché convinta ad un ultimo colloquio chiarificante, perché il/gli aguzzini l’ hanno convinta che avrebbero risolto le cose, che erano pentiti e che avrebbero accettato le sue decisioni senza fare più la guerra e per altre mille ragioni similari.
Non dimentichiamoci che tutto ciò di cui stiamo parlando sta nell’ambito della violenza domestica e quindi agita da persone amate, persone comunque di famiglia, persone che hanno fatto e fanno parte della loro vita, della loro affettività. Nei Centri antiviolenza, questa fase è sempre ben presente. Nelle situazioni valutate a forte rischio esistenziale, quella di evitare il sempre richiesto ultimo incontro perché è uno dei momenti più pericolosi, viene continuamente fatta presente e le donne vengono messe in guardia anche se, purtroppo, può accadere che la voglia di credere che la persona per qualche motivo cara possa cambiare, talvolta possa condurle alla morte.
Purtroppo i tempi di acquisizione del senso di sé annullato dalle violenze subite è spesso un tempo lungo, un tempo di lento recupero delle parti ferite e mortificate e l’acquisizione non solo razionale, ma soprattutto emotiva (sappiamo che la razionalità e l’emozione spesso vanno su binari opposti) talvolta non va alla stessa velocità. Ci sarebbero poi da dire molte altre cose sulle istituzioni che dovrebbero fare la loro parte e che in questo, come nella maggioranza degli altri casi, sono invece latitanti e pertanto colpevoli. Qui da noi, evoluti e democratici, sulla carta sembrano presenti tutte le reti di protezione salvo poi, è bene ripeterlo all’infinito, avere un numero di femminicidi e violenze da mattanza.

Daniela Lucatti è nata a Pisa nel 1953. Psicologa, Psicoterapeuta specializzata in Sessuologia Clinica. Opera presso il Centro Antiviolenza e la Casa della Donna di Pisa, si è occupata di età evolutiva, intercultura, sessualità, violenza di genere, sia per istituzioni pubbliche che associazioni, è referente toscana di Thém Romanò (Associazione Autonoma di Rom e Sinti, fondata dal prof. Santino Spinelli). Scrittrice, con pubblicazioni di poesia, prosa e saggistica.