di GIOVANNI RANIERI FASCETTI – L’allegoria dell’opera d’arte, un omaggio di Paolo Uccello a Filippo Brunelleschi.
Immagino che la signora, sfoderando uno sguardo tagliente, avesse contratto tutti i muscoli del viso per sembrare ancora più categorica nel proferire la sentenza; così disse al telefono: “Lei, questo libro, qui da noi non lo presenterà”. Rimasi sorpreso; al tempo, oltre ad essere certo della validità della mia scoperta, ero ancora ingenuamente convinto che gli Istituti di Cultura Italiani avessero il compito di svolgere un’azione di propaganda della cultura nazionale.
Nonostante l’opposizione degli italiani, non fu un problema presentare a Londra “The celebration of the florentine Republic’s power in two masterpieces: Paolo Uccello’s Saint George and the dragon in London and Brunelleschi’s fortress at Vicopisano” (CLD 2007), dal momento che il direttore della National Gallery, con il quale il Prof. Francis Pettit, curatore della traduzione, era in contatto, mi disse: “Presenterai il tuo libro ospite del nostro Museo; sarà un incontro riservato ad un pubblico scelto di esperti, cultori di Storia dell’Arte, rappresentanti delle associazioni che si occupano del Patrimonio e avrà luogo nella sala dove il dipinto è esposto; poi, in seconda battuta, per una presentazione ad un pubblico più vasto, abbiamo la disponibilità della Kensington Library”. Fu così che, nel mese di luglio del 2007, una nutrita squadra di soci del Gruppo Culturale “Ippolito Rosellini” partì per Londra e la Fortezza del Brunelleschi e Vicopisano si affacciarono sulla scena internazionale.

Questo articolo vuole oggi ripercorrere per il pubblico di TOSCANA TODAY l’analisi del “San Giorgio e il drago” di Paolo Uccello, un’opera che, senza la lettura in chiave simbolico-allegorica, sarebbe semplicemente un bel quadro, un capolavoro dal valore essenzialmente decorativo.
In origine il piccolo dipinto a olio su tela che misura 57 centimetri per 73, era parte della straordinaria collezione del conte polacco Lanckoronski esposta in un grandioso palazzo costruito in Vienna alla fine dell’800; nel corso della seconda guerra mondiale il palazzo fu seriamente semidistrutto e bruciato; si suppose che la nostra opera fosse perduta; in realtà i nazisti l’avevano prelevata; affidata in custodia ad una banca in Svizzera, fece la sua ricomparsa a Londra nel 1959, proprio come l’araba fenice che rinasce dalle fiamme. Evidentemente il Destino voleva che questo capolavoro si salvasse per contribuire alla fama di un monumento che fino al 1997 era misconosciuto: la fortezza del Brunelleschi a Vicopisano.
“Misconosciuto perché?”, si chiederanno ora i miei venticinque affezionati lettori; è bene ricordare qui, come sempre ho fatto in tutte le pubblicazioni dedicate alla fortezza, che i grandi esperti toscani del Brunelleschi: Carlo Ludovico Ragghianti docente dell’Università di Pisa, Piero Sanpaolesi Soprintendente ai Monumenti di Pisa, Lucca, Livorno, Massa, nelle loro monografie dedicate alle opere dell’architetto, avevano negato con decisione che la poderosa e affascinante fortezza di Vico frutto della sua progettazione.

I due studiosi, individuavano la genialità innovativa del Brunelleschi come architetto militare nel bastione della Porta a Lucca di Pisa. Questo bastione, in realtà, fu edificato un secolo più tardi, intorno 1530, da Giovanni d’Alessio d’Antonio, detto Nanni Unghero, proprio nel punto in cui Brunelleschi aveva realizzato “la più alta torre che fosse in Pisa e nei dintorni”; una torre-fortezza che iniziò subito a pendere e per un intero secolo si dovettero stanziare fondi per tenerla ancorata alle mura di Pisa e consolidarla, finché il Duca Cosimo non ne ordinò l’abbattimento. Ho scoperto e pubblicato l’immagine di questa torre nell’affresco della costruzione della Torre di Babele dipinto da Benozzo Gozzoli nel Camposanto di Pisa, interpretando questa presenza come una frecciata del Gozzoli al Brunelleschi per aver voluto costruire qualcosa di presuntuosamente eccessivo.
Per Ragghianti e Sanpaolesi la Fortezza di Vicopisano non era neppure un castello del Quattrocento, bensì del Trecento. Una vera tragedia!
Fonti alla mano, fonti così tanto a portata di mano che sarebbero state visibili a tutti, e quindi anche a loro, se solo avessero voluto alzarsi dalla comoda poltrona che li ospitava, non è stato difficile spazzare via le loro gratuite elucubrazioni che così gran danno hanno fatto all’immagine di un paese, Vicopisano, che aveva soltanto bisogno di opportunità di sviluppo e di rinascita.
Una volta affermata la paternità del Brunelleschi, era necessario ricostruire l’immagine complessiva della fortezza e spiegarne la genesi. Possiamo ben dire che, se Filippo Brunelleschi l’ha fatta, io l’ho ricostruita. Oggi ne conosciamo l’immagine completa e il segreto funzionamento delle sue diverse parti. Devo anche ringraziare tutti coloro i quali – senza preoccuparsi di citare la fonte delle loro descrizioni – hanno nel tempo diffuso la conoscenza delle preziose informazioni e scoperte da me pubblicate, permettendomi così di raggiungere l’unico fine che mi ero proposto: valorizzare un monumento a tal punto da farne un potente motore di sviluppo di una comunità e di un territorio; oggi Vicopisano è un esempio da manuale di quello sviluppo economico basato sul Patrimonio che sarebbe possibile su scala nazionale, dal momento che noi italiani possediamo questa risorsa inesauribile costituita dall’intreccio di paesaggio, storia, archeologia, prodotti tipici, tradizioni, in una quantità e qualità uniche al mondo.

Questo sviluppo pienamente realizzato è anche frutto delle strategie di marketing che abbiamo messo in campo per promuovere il monumento: una volta diradate le nebbie del tempo e riportata letteralmente alla luce una così complessa architettura, illustrata la sua funzione, confermata l’attribuzione, bisognava escogitare situazioni atte a promuoverne la conoscenza nel mondo, ecco, quindi, come sono arrivato ad individuare la fortezza nel dipinto del “San Giorgio e il drago” di Paolo Uccello, riuscendo a dare del quadro una lettura assolutamente rivoluzionaria.
Riguardo alla genesi del dipinto non si può omettere di riflettere sui rapporti di amicizia che legavano Paolo e Filippo e sul contesto storico. La fortezza di Vicopisano era nata nel laboratorio di uno dei più grandi architetti del XV secolo, Filippo di Ser Brunellesco, detto il Brunelleschi (1377 – 1446). Egli non apparteneva alla stirpe della nobile famiglia fiorentina dei Brunelleschi, era figlio del notaio Brunellesco; quando ne parlo ai bambini, racconto sempre che il padre avrebbe voluto vederlo indossare il mantello a ruota dei notai, ereditare il suo lucroso e prestigioso mestiere, diventare ancora più ricco di lui, ma il piccolo Filippo rispondeva che da grande avrebbe voluto fare il muratore! C’è da immaginarsi l’ira del padre e i sonori scapaccioni che dovevano piovere a correzione di una tale perversa tendenza; quel figliolo doveva sembrargli proprio stupido e ben poco indirizzato alla concretezza. Filippo, in realtà, stupido non era e per di più era pervicace; fu così che seguì la sua vocazione riuscendo a realizzare opere uniche al mondo, conquistando una fama che perdura nei secoli.
Eccolo dunque il nostro Filippo, dipendente dell’Opera di Santa Maria del Fiore, in quello stesso laboratorio nel quale aveva progettato la cupola della cattedrale e dal quale ne seguiva i progressi, progettare fortezze, una quantità di fortezze che le schiere dei maestri muratori dell’Opera sarebbero andati a costruire. Si trattava di realizzare una linea di difesa dello Stato di Firenze a settentrione e un’altra a meridione: una linea dell’Arno, una sorta di Arno Stellung ante litteram, e una linea ai confini delle terre del Chianti. La posta in gioco era grande: la sopravvivenza stessa di Firenze, nel momento in cui, dagli anni Trenta del Quattrocento, Filippo Maria Visconti, duca di Milano, Vicario imperiale, capo del partito ghibellino in Italia, aveva rinfocolato l’azione di conquista dell’Italia, già intrapresa da suo padre Gian Galeazzo Visconti. Il nemico principale per il duca rimaneva Firenze, la capitale del partito guelfo.

Le milizie di Filippo Maria Visconti erano entrate in Lucca dopo il rovesciamento del governo di Paolo Guinigi avvenuto nel 1430. Triste la sorte del signore di Lucca e della sua famiglia! Paolo aveva cercato invano di barcamenarsi tra i Milanesi, i Fiorentini e le tensioni interne al suo stato. Gli eserciti con le insegne del Biscione, al comando di grandi condottieri come Niccolò Piccinino, iniziarono a scendere da Lucca lungo quel ramo del Serchio, immissario del lago di Sesto, o Padule di Bientina che dir si voglia, e che poi, come suo emissario con il nome di Serezza, si univa all’Arno sotto le mura di Vico. Di tutta la linea dell’Arno, Vicopisano era il punto più strategico e vulnerabile. Essendo Vico il punto di passaggio della via Francigena, la sua caduta in mano al nemico avrebbe dato agio agli eserciti dei Visconti di scendere in direzione di Siena, aprendo un comodo canale di contatto con le armate milanesi dislocate sullo scacchiere meridionale della guerra. Per il duca conquistare Vico avrebbe significato anche interrompere i contatti tra Firenze, la capitale dello stato, e Pisa e soprattutto con il suo porto.
Come nel gioco degli scacchi, bisognava posizionare i pezzi più potenti nei punti strategici: ben tre fortezze a Pisa, una grande fortezza alla Lastra a Signa.
Nell’occasione si dovette provvedere anche al rinnovamento delle fortificazioni di Bientina, Cascina, Castelfranco, Santa Croce, Empoli, Malmantile.
La Regina, la madre di tutte le fortezze, andava collocata a presidio di Vicopisano. Fu così il Brunelleschi mutò in fortezza una città, un tempo considerata “il gioiello dei Pisani”.
Quando il progetto in forma di modello di legno e terra venne presentato agli uomini di governo e ai capitani, riscosse un’entusiastica e unanime ammirazione. Ad elogiare in sommo grado l’inventiva del Brunelleschi fu soprattutto un giovane ma già sagace condottiero, nato nella tenda di un accampamento presso Catena, località alle falde del colle di San Miniato: Francesco Sforza (1401 – 1466), figlio del capitano di ventura Muzio Attendolo Sforza e di Lucia Terzani da Torgiano.
Quel momento magico dell’anno 1435, la presentazione del modello, rimane eternato nelle pagine della Vita di Filippo Brunelleschi scritta da Antonio di Tuccio Manetti (1423 – 1497), matematico, architetto e collaboratore di Filippo.
Si procedette subito a impiantare il cantiere di Vicopisano e nei libri-paga dell’Opera del Duomo di Firenze sono annotati i versamenti al Brunelleschi e agli operai per l’edificazione della straordinaria fortezza che possiamo ben definire “una gioiosa macchina da guerra”, questa sì veramente funzionante.
Se macchine da guerra possono sembrare odiose, questa non lo è: quel “serpente” di Filippo strutturò un ordigno bellico, a tal punto inespugnabile, imprendibile, da essere in grado di vincere senza combattere; in questa straordinaria realizzazione più che la forza bruta del dio Ares/Marte, si esalta la potenza intellettuale di Athena/Minerva, dea della strategia.
Così fu; mai gli eserciti del Duca osarono attaccare la fortezza di Vico, essa vinse senza combattere!

In quelle meravigliose giornate della sua vita, passate nelle logge dei muratori, scultori e scalpellini che edificavano la cupola e in sopralluoghi sul cantiere di Vico e sugli altri cantieri militari, il Brunelleschi condivideva con altre menti eccelse, colleghi di lavoro e artisti stipendiati dall’Opera, i suoi entusiasmi, le riflessioni sugli argomenti di ricerca sulla geometria, sulla fisica e sulla prospettiva, dubbi ed eventuali amarezze. L’ammirazione correva reciproca, dall’uno all’altro, per quello che essi, i migliori artisti del mondo, stavano creando in quel momento. Tra tutte quelle menti eccelse c’era il pittore Paolo Uccello impegnato nell’esecuzione delle vetrate del Duomo e nella progettazione del monumento funebre ad affresco per Giovanni Acuto. Avrà Paolo seguito Filippo fino al cantiere di Vico per vedere sorgere questa meraviglia? Anni or sono, un’anziana signora di Uliveto, paese alle porte di Vicopisano, ricordava che suo padre, quando aveva acquistato la casa dove abitavano, aveva scoperto dagli antichi documenti notarili che l’edificio era appartenuto in origine ad un pittore chiamato Paolo Uccello; forse il fantasioso artista si era innamorato di quella selva di rocce aguzze, sorta di colossali menhir, dette “nonne”, delle caverne spaventose e degli impervi declivi a specchio dell’Arno, nido di tante taccole?
Penso proprio che abbia visto il cantiere della fortezza, e che sia rimasto profondamente colpito dalla creazione del suo amico, tanto da volerla celebrare, celebrando al contempo la vittoria di Firenze sui Visconti, un tema che gli era così caro da ritornare come un luogo comune in tanti suoi capolavori. Volle dipingere quel “San Giorgio e il drago” che ci piace immaginare come un omaggio di una mente eccelsa ad un’altra mente eccelsa; menti di maestri che quando si incontravano usavano gli stessi complessi codici simbolici per comunicare, seguendo quel linguaggio antico dei simboli e delle allegorie, tenuto in vita nelle confraternite di Arti e Mestieri, e nel quale si erano condensate le più grandi e profonde verità sulla vita, sulla natura e sul cosmo per poterle trasmettere agli iniziati.
Certo, nel momento della creazione del dipinto, la lettura del libro per eccellenza degli artisti, la Legenda Aurea, la raccolta delle vite dei santi redatta da Jacopo da Varazze (1228 – 1292), offriva elementi di grande suggestione alla mente di Paolo: nel racconto il drago, immagine del male, del demonio, era sorto da un lago che si trovava nei pressi della città di Selem in Libia portando morte e desolazione con il suo fiato esiziale; le milizie del duca di Milano, la cui insegna era un serpente che serra nelle fauci un uomo, piombavano sui confini dello stato di Firenze provenendo proprio dalla parte del lago di Sesto/padule di Bientina, il più grande lago della Toscana, ubicato alle porte di Vicopisano. E il San Giorgio non era forse, per i fiorentini dell’epoca, il santo protettore del loro esercito? Il comandante delle milizie, il Capitano del Popolo, aveva come vessillo la croce rossa in campo bianco di San Giorgio. Il Santo era anche il protettore dei Corazzai e degli Spadai fiorentini e la loro Arte lo volle esaltato nelle armoniche forme di una statua scolpita da Donatello per l’Orsanmichele intorno al 1415. Infine, la principessa preda delle insidie del mostro ricordava la città Firenze. Già vari artisti l’avevano personificata nel corso Trecento; nelle vesti di una principessa con il giglio in mano la troviamo rappresentata in una miniatura del Codice di Convenevole da Prato; così ci appare anche nel bassorilievo del basamento della statua di Donatello con la rappresentazione del San Giorgio che ferisce il drago e salva la principessa. Tutta vestita di rosso, la volle dipingere Paolo, riflesso del colore dell’iris simbolo che è il simbolo della Città.

Ma l’oggetto di massimo interesse per Paolo era la fortezza di Vico, intesa come strumento della vittoria sul nemico… ecco, quindi, il suo pennello tracciarne il profilo al centro dell’allegoria, proprio nel punto di incontro degli assi di una croce di Sant’Andrea, simbolo della Forza della Luce, che costituisce l’ordito dell’immagine; un chiasmo alle cui estremità si collocano gli elementi dello scontro dialettico: il Bene e il Male. Venne a tracciarla nei suoi elementi essenziali, costitutivi: la cerchia delle mura in basso intorno al colle, la Rocca con il suo Maschio sulla sommità del colle e, tra la Rocca e la cortina dabbasso, ecco la lunga muraglia, il Soccorso, idea geniale di Filippo, con la torre che lo conclude posta alla confluenza della Serezza in Arno, per secoli chiamata “torre del Brunelleschi”. Paolo sentiva con forte emozione la struttura del Soccorso, lunga decine di braccia e merlata al sommo; solo il Brunelleschi e i Capitani ne conoscevano la funzione e fui io il primo, dopo secoli, a comprenderne e descriverne il funzionamento, allorché misi mano alla ricostruzione della fortezza brunelleschiana. Ma torniamo a Paolo; forzando la visione del naturale per dare pregnanza alla rappresentazione simbolica, Paolo cambiò il verso alla muraglia, per poterla dipingere parallela alla lancia del San Giorgio ed esprimere così la sensazione che provava: quella che Filippo avesse creato un’arma potente in grado di neutralizzare il nemico più agguerrito.
Infine il pennello di Paolo tracciò, sullo sfondo di tutta la scena un monte dal profilo inconfondibile, il monte della Verruca, al fine di contestualizzare geograficamente il messaggio.
Siccome al tempo le guerre tutte si facevano in nome di Dio (beate concezioni degli uomini) il nemico considerato strumento del Demonio come ben ci insegna lo stemma della Parte guelfa di Firenze, il partito politico: l’aquila rossa, ovvero Dio, artiglia il basilisco simbolo del Demonio; del resto il nemico è considerato il Maligno anche nella storia contemporanea e in proposito, a titolo di esempio, possiamo citare “il grande Diavolo Bush” o “il grande Satana Trump”; ecco, alle spalle del drago, la buia caverna simbolo degli inferi e, al lato opposto, alto nel cielo, il turbine di nubi, la tempesta che rappresenta l’ira di Dio. Si nota una particolare disposizione delle nubi bianche e di quelle nere che a noi può ricordare lo yin yang; è questo un riferimento agli elementi costitutivi della Divinità: il bianco rappresenta l’elemento maschile e il nero l’elemento femminile. La spirale di nubi dà forma all’occhio onniveggente di Dio, simbolo della Provvidenza. La tempesta è collocata in alto a destra, e da qui discende la narrazione; infatti le allegorie figurative si leggono procedendo da destra verso sinistra. Su indicazione di San Giorgio la principessa, una volta salva, legò il mostro con la sua cintura e così vediamo nel dipinto; non si tratta di un’invenzione divertente del pittore come ha scritto la studiosa Lucia Tongiorgi Tomasi nella sua monografia pubblicata per i tipi della Rizzoli, bensì di un particolare del racconto di Jacopo da Varazze; lo legò per trascinarlo, ormai manuseto come un cagnolino, fino alla città, mostrarlo ai cittadini e indurli così alla conversione in omaggio alla potenza di Dio.
Riassumiamo dunque la lettura allegorica del “San Giorgio e il drago”: per volere di Dio irato (la spirale di nubi nel cielo), il San Giorgio (l’esercito di Firenze) è inviato a neutralizzare il dragone (il Male, il nemico politico); il nemico che qui viene neutralizzato è proprio il capo del partito ghibellino in Italia, Vicario imperiale duca di Milano Filippo Maria Visconti: vediamo il Biscione dei Visconti proiettato nella coda serpentiforme del drago; qui, il serpente non figura in posizione eretta ma è collocato in orizzontale, quindi sconfitto, neutralizzato; la principessa tutta di rosso vestita che viene salvata è il rosso fiore, Fiorenza, la città di Firenze; la fortezza di Vicopisano, collocata al centro dell’allegoria, è lo strumento di questa vittoria, e, come già detto, il Soccorso, la muraglia, invenzione geniale di Filippo, è l’arma potente che neutralizza il nemico nel momento dell’attacco.
Inutile dire che in tutte le università e scuole italiane il “San Giorgio e il drago” di paolo Uccello viene ancora oggi presentato come un elegante ma laconico dipinto a soggetto religioso mentre nel mondo anglosassone, anno dopo anno, dilaga sempre più l’entusiasmante lettura allegorica che ne abbiamo offerto. Non ai posteri, bensì a Voi, Cari Lettori di Toscana Today, affido l’onere di esprimere l’ardua sentenza su quale delle due interpretazioni sia la più veritiera.

Giovanni Ranieri Fascetti, pisano, classe 1965, è uno storico dell’Urbanistica, archeologo, esperto di Gestione e Marketing del Patrimonio, Cittadino Onorario di Vicopisano e Premio Pegaso d’Oro della Regione Toscana, docente di materie umanistiche presso l’I.T.S. “Pacinotti-Galilei” di Pisa. E’ Presidente del Gruppo “Ippolito Rosellini”, direttore della Rocca del Brunelleschi a Vicopisano e Custode del Tempio di Minerva a Montefoscoli.