di ESTER MARINAI – Una storia di realismo magico ambientata ai tempi dello schiavismo o metafora di un’imminente ed inevitabile declino?
Una chiave di lettura personale del Premio Nobel per la letteratura del 1993: semplice storia di realismo magico ambientata ai tempi dello schiavismo in Nord America o metafora di un’imminente ed inevitabile declino?
Se mi dovessero chiedere di descrivere il romanzo “Amatissima” (titolo originale Beloved, 1987) di Toni Morrison usando una parola sola, sceglierei l’aggettivo “pesante”. E questo non perché lo sia la trama di per sé o lo stile in cui è scritto, che è anzi vigoroso e disinvolto. Eppure, è un libro che io ugualmente definirei “pesante”. “Pesante”, perché ciascuna pagina si fa carico di un peso. Il peso di un passato impietoso, il peso dell’ingiustizia della vita, il peso della violenza subita, il peso di un crimine indicibile, il peso della colpa.
Sethe è una schiava nera che nel 1855 fugge incinta dalla fattoria di “Sweet Home” nel Kentucky per rifugiarsi coi tre figli nello stato libero dell’Ohio, nella casa di Baby Suggs, madre del marito Halle. Dopo la morte della figlia maggiore Beloved, però, al 124 di Bluestone Road iniziano ad accadere con una certa frequenza fenomeni paranormali, manifestazioni della presenza dello spirito della bambina nella casa.
I figli Howard e Buglar, al colmo dell’esasperazione, si allontanano dalla casa infestata senza far ritorno, cosicché Sethe rimane sola con la figlia Denver e il fantasma di Beloved che continua a palesarsi nei modi più svariati. Questo finché nel 1873 non viene a far loro visita Paul D, un tempo compagno di schiavitù di Sethe a Sweet Home, il quale riesce a cacciare lo spirito. O almeno così credono: tornati dal circo nella città vicina, trovano su un ceppo vicino ai gradini del 124 una giovane donna, il cui nome è – non a caso – Beloved. Nonostante la sua sconosciuta provenienza e i suoi atteggiamenti bizzarri, Sethe decide di adottarla definitivamente in casa. Il motivo di un attaccamento così improvviso? Un terribile segreto che Sethe cerca di tenere nascosto: la violenta uccisione di Beloved, avvenuta diciotto anni prima per mano sua in un tentativo di salvarla dal rinnovato pericolo di schiavitù incarnatosi in quattro uomini che stavano aspettando tutta la famiglia nel cortile del
Un crimine efferato, insomma, dettato dall’amore sconfinato di una madre nei confronti della figlia e al tempo stesso esecrabile agli occhi della comunità nera di Cincinnati così come a quelli di Paul D, il quale se ne va dalla casa non appena ne viene a conoscenza.
Rimasta sola con Denver e con Beloved che non la lascia un attimo in pace, Sethe esce del tutto fuori di senno: perde il lavoro, si dedica a ogni tipo di frivolezza, gioca con la figlia ritrovata, presta attenzione solo a lei, prova fino allo sfinimento a spiegarle i motivi per cui le ha tolto la vita e si lascia persino maltrattare fisicamente e psicologicamente. Tra le due si crea un rapporto simbiotico di pura follia, di cui sono entrambe prigioniere.
Denver, preoccupata, va a cercare lavoro e aiuto nella comunità nera. La gente capisce la gravità della situazione e le donne organizzano una sessione di preghiera collettiva di fronte al 124 per scacciare il male dalla casa. A quel punto, la ragazza sparisce nel nulla e il 124 può finalmente apprestarsi a una nuova vita.
Una trama inusuale e commuovente che l’autrice ha concepito basandosi su un articolo del 1856 in cui viene riportata la storia di Margaret Garner, fuggita dalla schiavitù e successivamente arrestata per l’uccisione della figlia e il tentato omicidio degli altri figli. La fonte di ispirazione è dunque una storia vera, in cui il realismo più crudo va poi a mescolarsi con gli elementi soprannaturali delle credenze degli afroamericani e dove i personaggi femminili ricoprono il ruolo di figure portanti del romanzo. Sono onnipresenti, forti e determinate. Al contrario, quelle maschili sono sfuggevoli: sembrano assumere tratti molto più sfumati e indefiniti, anche nelle loro esternazioni violente. Sia del misfatto che dell’uomo che lo ha compiuto abbiamo solo delle descrizioni minimaliste. Soltanto l’idea della violenza stessa è nitida.
Questo è un romanzo che trova nella violenza il proprio fondamento: da essa nasce e di essa si nutre. Toni Morrison dedica la sua opera ai «sessanta milioni o più» di vittime della schiavitù, tutti contrassegnati da una vita di violenza subita fino alla morte.
Così come Sethe ha un “albero” indelebile inciso sulla pelle della schiena per via dei colpi di frusta, la violenza ha marcato il cuore e la mente a lei e ad altri ex schiavi. È il fardello che si dovranno portare a vita e che riemerge da queste pagine, dando al lettore quel senso permanente di pesantezza.
La critica al colonialismo si fa indubbiamente sentire, proprio come il femminismo e il concetto di libertà. Non si può, inoltre, asserire che la storia manchi di introspezione, sottolineando in particolare ciò che in psicoanalisi viene definito “rimozione”.
In tutti questi anni, Sethe ha cercato di rimuovere non solo i ricordi del proprio passato da schiava, ma soprattutto l’omicidio di Beloved. Lavora il più possibile per non pensare, per non richiamare alla mente quello che si è lasciata alle spalle. Tuttavia, ciò non impedisce al passato di prorompere nella vita quotidiana della donna, degenerando in quella che viene chiamata un’«invasione». Le vicende precedenti alla storia non ci vengono svelate subito, bensì a mano a mano che si procede verso la conclusione.
Viene in questo modo riprodotto il riaffiorare della sofferenza passata e del senso di colpa che finisce per impadronirsi di Sethe. Per quanto si sforzi in tutti i modi di trovare un alibi, non c’è niente che possa lavare via la macchia del crimine. Anzi, si espanderà sempre più fino a che il peso non la farà collassare. Infatti, riesce a condurre una vita relativamente tranquilla, finché il problema non le si presenta di fronte in carne ed ossa.
Si può a ragion veduta interpretare il romanzo sotto tali prospettive. Però, non sono questi gli aspetti su cui mi voglio soffermare, bensì su un’interpretazione alternativa e strettamente personale.
Nel suo realismo magico di cui è un esempio, ho percepito una forte valenza simbolica, per cui alcuni dettagli apparentemente insignificanti diventano altresì parte di una metafora ben più ampia.
Sethe è un personaggio sostanzialmente radicato nel passato. Ha, da un lato, avuto il coraggio di fuggire da Sweet Home per eludere una sorte di schiavitù e abusi altrimenti inevitabile. Dall’altro, non avrebbe tentato di uccidere i figli e se stessa se non fosse stata sicura che il passato si potesse ripetere.
Voleva che si ritrovassero tutti nell’aldilà, un mondo nuovo in cui la schiavitù non sarebbe esistita e in cui i figli non avrebbero dovuto subire la stessa sorte tramandatasi dalla madre a lei. Non ha pensato a maniere alternative per evitare un gesto tanto atroce, in quanto è partita dal presupposto che tutto sarebbe rimasto uguale a prima. Non riusciva proprio a percepire un futuro diverso. Sethe rappresenta, pertanto, il vecchio mondo.
Siamo negli anni successivi alla Guerra di Secessione americana (1861 – 1865). Si tratta, perciò, di un momento storico di transizione. Questa “transizione” viene rappresentata dal confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti che inizia a farsi sempre più labile. In un primo momento, ciò avviene attraverso le frequenti manifestazioni della bambina. In un secondo momento, abbiamo la reincarnazione di Beloved. Ritorna in carne ed ossa per impossessarsi in tutto e per tutto della madre, di quella «faccia che è anche la [sua]».
Ma si tratta soltanto di una corsa sfrenata al possesso e di una forte sete di vendetta oppure il suo ritorno tra i vivi costituisce in realtà una missione da compiere?
A pensarci bene, Beloved se ne va proprio quando Sethe ha ormai raggiunto un grado estremo di follia: mentre le donne sono di fronte al 124 e pregano, Sethe scambia l’uomo che sta venendo a prendere Denver per portarla al lavoro per il padrone della fattoria, il quale diciotto anni prima era venuto per riportare lei e i figli a Sweet Home. Nel timore che fosse tornato a prendere lei e Beloved, impugna il punteruolo del ghiaccio e tenta di pugnalarlo, dimenticandosi che fu proprio lui ad evitarle la condanna a morte anni prima.
Quello che a lei, ormai completamente impazzita, sembra un ripetersi del passato rafforza ancora di più l’immagine del ciclo: l’uomo col cappello, il carro che si avvicina, il rinnovato istinto omicida e l’immagine di una donna incinta che tiene per mano la propria bambina. Perché i ruoli si sono invertiti: adesso è Beloved ad essere la madre e Sethe la figlia. Per giunta, di fronte alle preghiere, Beloved non reagisce in maniera incontrollata come ci si aspetterebbe da qualsiasi incarnazione luciferina. Beloved sorride soddisfatta e si mostra alle donne in tutto il suo splendore, nuda e incinta. Potrebbe benissimo essere l’allegoria delle forze vitali piuttosto che di quelle abissali. Dopodiché, si limita a scomparire nel nulla, come una piuma spinta lontano dal vento, e non tornerà mai più.
La sua scomparsa non è da interpretare come una sconfitta, bensì come un trionfo. In fin dei conti, la sua missione sulla Terra è compiuta: riunire in primis la comunità nera della città che aveva isolato Sethe per il crimine commesso; ridurre in secundis alla follia e all’infantilismo il vecchio mondo (Sethe) per poi annunciarne la venuta di un nuovo (il ventre fecondo). Non dimentichiamoci che Beloved ha sedotto più e più volte Paul D per indurlo a intrattenere una relazione carnale con lei e ad andarsene per poter avere il controllo di Sethe.
Lei è, quindi, incinta dell’unico uomo che sia veramente proiettato nel futuro: indipendentemente dalle sventure passate e dal crimine di Sethe, si dimostra saldo nella propria determinazione e infine torna sui suoi passi per crearsi una vita futura insieme a lei.
Il figlio di Beloved che non nascerà mai presagisce l’arrivo di un mondo nuovo, che si instaurerà grazie a Paul D (la saldezza del passato e la capacità di guardare oltre) e alla figlia Denver (la gioventù e, di conseguenza, il futuro) che tenteranno di “rieducare” Sethe, l’antico mondo in rovina. Beloved è stato solo un medium che ha creato le condizioni affinché il cambiamento per Sethe arrivasse: le ha attenuato il senso di colpa tornando da lei e facendole capire di non essere mai morta, è scomparsa senza che stavolta la colpa fosse sua e le ha fatto raggiungere la catarsi attraverso la follia.
Adesso posso svelarvi la metafora di cui i simboli sopracitati si fanno interpreti: quella del percorso ciclico di ogni civiltà sulla Terra, fatto di decadenza e rigenerazione, quella dello scambio tra due mondi. Ciò può essere riferito a una società sudista e schiavista che pian piano sta andando a morire oppure esteso globalmente.
“It was not a story to pass on.” Questa è una delle frasi con cui termina il romanzo. Il verbo frasale to pass on, come fatto notare da Alessandro Portelli, può essere tradotto col verbo “tramandare” oppure “ignorare”. Gli oltre sessanta milioni di morti a cui è dedicato lo scritto sono al giorno d’oggi caduti nell’oblio, esattamente come Beloved. Lo stesso vale per i black and angry dead (lett., i morti neri e arrabbiati). Di fronte a questa – che è una delle tante vergogne dell’umanità -, la nostra reazione è stata rimuoverla del tutto, dimenticarcene perché troppo lontana dalla nostra realtà.
Viviamo in una società affetta da amnesia, dove si tende a dimenticare e a cancellare il passato, ma non ci rendiamo conto che – seppur in minima parte – rimarrà sempre con noi e che prima o poi verrà a chiedere il conto.
Anche se ora quei sessanta milioni e più sono ridotti in cenere e le loro ossa sparse nel terreno, nei greti dei fiumi e nei fondali marini, sono pur sempre parte dell’universo. Le sue forze smuovono le molecole a proprio piacimento e prima o poi sanciranno la vittoria dei popoli sottomessi su quelli che per secoli li hanno soggiogati e hanno sempre creduto che il benessere fosse loro dovuto in eterno.
D’altronde, usando le parole di Portelli, Beloved “è dimenticata ma non perduta”.
Ester Marinai è nata a Pontedera nel 2000, Studentessa del corso triennale in Scienze della Mediazione Linguistica presso l’Istituto di Alti Studi SSML Carlo Bo di Firenze, con inglese e francese come lingue di laurea. E’ attiva nell’Associazione culturale “Ippolito Rosellini”, impegnata nella valorizzazione del patrimonio artistico e culturale locale.