di ALDO BELLI – 8 agosto ore 21, a Bargecchia una serata speciale dedicata a Vittorio Grotti e alle sue estati incendiate di arte e poesia.
Vittorio Grotti finì il suo troppo breve viaggio il 24 febbraio 1981, aveva solo 42 anni. Era nato dunque nel 1939. Credo di averlo incontrato la prima volta in occasione di qualcosa che aveva organizzato alla Fondazione Viani, non ricordo esattamente: mettendo a fuoco la memoria, se la fondazione nacque nel 1976, lo conobbi quando il male aveva già iniziato a mordere la sua esuberanza. Ero in compagnia di Gianfranco Tamagnini, questo sì lo ricordo bene, il suo medico e mentore, appassionato d’arte e della cultura, con il quale la mia confidenza era nata praticamente fin dall’uscita dal grembo materno. Ricordo Gianfranco in questa occasione, perché so che il legame tra i due fu un’amicizia profonda, intimamente condivisa anche negli eccessi dell’umore che contraddistinsero gli ultimi mesi della vita di Vittorio. Da Gianfranco Tamagnini seppi che la candela sulle colline della Versilia, dove Grotti viveva, si stava spegnendo. Intorno a Gianfranco si erano riuniti, intorno agli anni Settanta, una serie di giovani pittori e animatori della cultura che avrebbero fatto parlare di sé, uno di questi era il giovane Vittorio con quel suo faccione sorridente e gli occhi luminosi, a tratti magnetici.
Per avere un’idea del contesto, nel quale visse Vittorio e al quale contribuì, ho ritrovato un’intervista che Carlo Verdone rilasciò all’amico Claudio Vecoli nel 2013 (Il Tirreno): “Per me la Versilia è sinonimo di vacanza. Mio padre era molto legato a quel tratto di litorale che va da Viareggio a Forte dei Marmi. E anche mia madre aveva molte amiche da quelle parti. Così ogni estate, negli anni Settanta, vi trascorrevamo un lungo periodo di ferie. All’epoca ero uno sconosciuto Carlo Verdone. Però, grazie a mio padre, ho avuto la possibilità di conoscere molti protagonisti del mondo dell’arte che frequentavano quelle spiagge. Penso ad esempio a Mino Maccari, grande artista ma anche persona di grande simpatia con il quale ho passato momenti indimenticabili. Penso a Krimer, di cui conservo ancora un quadro nella mia casa di Roma. Ma frequentavamo anche pittori del calibro di Cascella, Treccani e Primo Conti. C’era però un personaggio tipicamente versiliese che ricordo con grande affetto: si chiamava Vittorio Grotti ed era un grande animatore culturale della Versilia di quegli anni. E’ grazie a lui che ho conosciuto gli hangar dove si costruivano i carri del Carnevale. Ed è con lui che ho respirato quell’aria speciale di poesia e cultura che solo in Versilia riuscivi a trovare”.
Quell’aria “speciale di poesia e cultura” si sintetizzò in Vittorio Grotti nella sua duplice, vorrei dire poliedrica, attività di poeta e di animatore culturale. Scrivere non gli sembrò sufficiente per esprimere il suo concetto di ‘vita’ e di ‘arte’, apparteneva a quella generazione lunga che considerava la parola, l’opera d’arte, il pensiero, una leva della bellezza salvifica del mondo e per questo prive di senso se non respirate nell’aria: nascono così, spesso con il candore e l’ingenuità infantile che ignora la misura degli ostacoli, le mostre d’arte allestite ai Frati di Camaiore a cavallo degli anni Sessanta-Settanta: Braque, Picasso, Moore, De Pisis, Carrà, Venturi, Maccari, Rosai, Treccani, Conti, Cascella, Liepchitz,, Tintoretto. Intanto, poneva attenzione ai nuovi artisti emergenti. D’Andrea Possenti, Ordavo, Munzlinger, Liberatore. Ricordo che D’Andrea e Munzinger li conobbi giovani pieni di entusiasmo e ancora un po’ impacciati nella casa in collina di Gianfranco Tamagnini.
Nel 1973 Grotti mise insieme 5.000 opere provenienti da tutto il mondo allestendo una delle esposizioni naifs delle quali si è perduta la memoria, che probabilmente rimane una delle più imponenti e importanti mostre del genere mai organizzate in Italia. La Versilia aveva respirato fin dai primi del Novecento “un’aria speciale di poesia e cultura”, e si badi bene: solo apparentemente isolata, e autoreferenziale degli ospiti illustri della letteratura e dell’arte, perché si generò nei fatti una contaminazione reciproca della quale sono testimoni non solo le memorie dei grandi – si pensi al Premio Letterario Viareggio di Leonida Repaci o al Quarto Platano di Forte dei Marmi – ma anche le tracce rimaste sul territorio.
L’identità, le radici, Vittorio Grotti nella sua concezione della bellezza che salverà il mondo, coglie l’inscindibile nesso tra la cultura e l’amore. Vittorio ama Camaiore, ama la Versilia, non meno di quanto ami l’Italia. E soprattutto ama la gente, lo esprime in quel suo modo un po’ menestrello, di affabulatore senza bisogno di ricorrere alla trovata irreale, nel suo essere poeta senza confini e al tempo stesso attaccato alla terra in cui vive. Non gli sfugge, quindi, l’aria speciale di poesia e di cultura che si respira nei capannoni dove ogni anno a Viareggio crescono dal nulla i carri di cartapesta – allora si usava ancora la carta incollata con la colla di farina – e nella metà degli anni Settanta organizza una collettiva di pittura dei carristi viareggini.
Nella sua mente batte un chiodo sul quale rimugina da un po’ di tempo, è stato a Parigi, a Londra, a New York, ha allestito le opere di Saporetti a Milano e di Serafini a Bologna e Firenze, ma questa è la sua terra e qualcuno manca all’appello. Finalmente si decide, e con il solido candore testardo vola a Caracas per chiedere aiuti finanziari ai fratelli Barsanti: viareggini emigrati in Venezuela in cerca di lavoro, e adesso una delle famiglie più ricche del mondo. Nasce la Fondazione Viani sulle colline di Camaiore. E’ una struttura modesta, meriterebbe spazi ben più ampi, ciò nonostante intorno al grande artista del Novecento europeo (1882-1936), nemo profeta in patria, Grotti da vita ad un’amalgama di temperamenti pittorici, offre lo sguardo ai giovani emergenti, la fondazione diventa rapidamente un luogo di incontro – e non solo per i versiliesi – dove si respira un’aria speciale di poesia e di cultura. Vittorio esalta le radici dell’appartenenza, l’amore per la sua terra è la colonna sulla quale insiste per dimostrare che l’identità non è un limite ma una liberazione.
Di tutto questo, rimane oggi solo il ricordo di pochi. La figlia Esther prosegue la sua faticosa attività per tenerlo in vita. Quella di Vittorio Grotti – come pure di Esther – è una storia italiana: quella di un’altra Italia scomparsa nell’indifferenza colpevole di un paio di generazioni, e di quella piccola Italia che cerca, come può e sovente nella solitudine delle istituzioni, di non recidere definitivamente il filo della nostra civiltà.
La caparbietà di chi In Italia continua a resistere al Nulla potrà apparire puerile, una nostalgia senile, un esercizio intellettuale demodé, ma se è vero ciò che diceva Verdone, “con lui ho respirato quell’aria speciale di poesia e cultura”, allora è vero che se viene meno “quell’aria” siamo condannati a respirare e a morire di anidride carbonica.
(foto: fonte https://www.facebook.com/esthergrotti7/photos/?ref=page_internal)
