di GIOVANNI VILLANI – Il camminamento sull’enorme torre pentagona addossata ai Portoni della Bra, ingresso principale di Verona, sarà aperto al percorso pubblico. Per la prima volta in tempi moderni la misteriosa torre sarà collegata, attraverso un accesso, dal Palazzo della Gran Guardia, al resto dei camminamenti che sovrastano le due gigantesche porte di accesso in città, fino a confluire nel museo maffeiano dell’Accademia Filarmonica.
È un’ulteriore dimostrazione della volontà veronese di conservare le proprie mura, lunghe complessivamente 11 chilometri, tra quelle perimetrali e quelle che attraversano, da ovest ad est, la città. Un intento che non è mai venuto meno nelle diverse amministrazioni che si sono succedute dal dopo guerra, tanto che è sempre in corso col Demanio una complessa trattativa per l’acquisizione dell’intero patrimonio delle mura, sia quelle medievali- scaligere che quelle veneziane-austriache. Al contrario di altre città, come Bologna e Firenze, che hanno preferito abbattere le proprie per agevolare la circolazione dei veicoli, Verona ha sempre cercato di salvare il suo storico e ricco patrimonio.
Il succedersi delle mura veronesi ha periodi diversi partendo ancora dal I secolo a.C. a quello comunale, con i rifacimenti di Ezzelino da Romano e successivamente degli scaligeri, per finire a quelli della Repubblica veneziana e quelli insediati dall’Austria. Le mura che inglobano la torre pentagona sono dovute inizialmente ad Ezzelino, che ha governato Verona per un trentennio, e successivamente ad Alberto della Scala che le ha irrobustite e allargate. A quel tempo la città era, più o meno larvatamente in possesso del da Romano, uno dei più strenui sostenitori della parte imperiale nell’Italia settentrionale, insieme a re Enzo, figlio di Federico II. Egli, che riteneva Verona una delle principali basi dell’autorità imperiale in Italia, non poteva tollerare che la città avesse difese tanto precarie come si erano mostrate quelle comunali, proprio in piena guerra contro le forze guelfe affermatesi, fra l’altro, a Mantova. Pertanto, anziché effettuare limitati lavori di riparazione ai soli punti crollati, la cinta fu quasi ovunque rifatta qualche metro più indietro della prima comunale, su un terreno ben solido, ma sempre con lo stesso tracciato. Essa fu irrobustita con la grande torre pentagona alle porte della Bra, con una rocchetta al posto dove poi fu costruito il Palazzo della Gran Guardia, e con altre varie torri, di cui quella ancora esistente al Ponte Rofiolo – sopraelevata poi da Alberto della Scala nel 1283 – e quella terminale sull’Adige della Paglia, presso l’attuale ponte Aleardi.
Il muro precedente, riordinato, ebbe così solo le funzioni di antemurale e di sponda dell’Adigetto – scorreva da Castelvecchio fino appunto alla torre della Paglia – tuttavia continuò a costituire un ostacolo sicché la città ebbe, verso sud, per quasi tutta la cinta, un doppio muro. Fra l’uno e l’altro vi era quindi la possibilità di far passare non solo truppe, ma anche carriaggi, senza essere visti dal nemico.
Solo nel tratto iniziale, dall’Adige alla Porta del Morbio e all’Arco dei Gavi, il muro primitivo, anziché rifatto fu, dove necessario, riparato. La muraglia di Ezzelino è tuttora visibile per lungo tratto di via Pallone e comunemente indicata come mura viscontee perché Giangaleazzo Visconti se ne servì per costruire la sua cittadella dentro la città. È costituita da corsi di cotto e ciottoli, utilizzando in alcuni tratti, pietre squadrate del muro comunale crollato.
Prima della caduta dell’impero romano, consistenti furono anche le mura dell’imperatore Gallieno (253-268), che inglobarono nel loro perimetro l’Arena, e di Teodorico, “che fece dei muri nuovi includendo gli antichi e che a sinistra dell’Adige per costruirli demolì, pare dopo gli accordi con Vescovo, l’abside della chiesa di Santo Stefano”.
Per quanto riguarda appunto questa zona a sinistra Adige (quella che più interessava i Goti) confrontata con la sistemazione viaria tuttora esistente, sembra che i lavori principali siano stati due: il rifacimento dell’Arx romana ed un limitato ampliamento del perimetro difensivo romano, sia ad occidente che ad oriente del colle dell’Arx stessa. Il tracciato dei muri nuovi sembra possa identificarsi con le attuali vie San Carlo e Borgo Tascherio.
Invece per la zona a destra dell’Adige, i pareri basati essenzialmente sull’interpretazione dell’Iconografia Rateriana, sono discordi. C’è chi pensa che Teodorico abbia solo elevato di qualche metro le mura di Gallieno e c’è chi invece ritiene (e sono i più) che egli abbia costruito un muro nuovo antistante a quello di Gallieno, corrispondente alla parte retrostante gli edifici di stradone San Fermo, che sarebbe in seguito sorto, proprio per l’interramento del fossato che proteggeva il muro nuovo in questione. La succinta esposizione della prima cinta veronese e dei suoi rifacimenti delimitò comunque la città, contribuendo però e più volte alla sua difesa, dalla metà del I secolo a. C. alla metà circa del XII secolo d. C. cioè per circa 1300 anni.

Giovanni Villani è nato a Verona, giornalista pubblicista dal 1990, critico musicale del quotidiano L’Arena di Verona. Dirigente amministrativo. Laureato all’Università di Bologna in Storia e all’Università di Verona in Arte.