Marco Tutino

Marco Tutino: i teatri, la musica e l’Italia – intervista amara

di ALDO BELLI – “L’Italia è un paese malato, senza futuro, e nel Teatro lirico si consumano i peggiori scambi di ogni genere”

Marco Tutino è nato a Milano nel 1954, rappresenta una delle eccellenze della musica italiana. Due diplomi al Conservatorio Verdi di Milano in Flauto e in Composizione. Esordisce come compositore nel 1976 partecipando al Festival Gaudeamus in Olanda. E da lì la sua fama è stata un crescendo di successi e di riconoscimenti da parte della critica e del pubblico in tutto il mondo. E’ stato Consulente Artistico e Compositore residente alla Fondazione Arena di Verona dal 1998 al 2002, Direttore Artistico del Teatro Regio di Torino nel 2002, Sovrintendente e Direttore Artistico del Teatro Comunale di Bologna nel 2006, l’elenco sarebbe veramente molto lungo.

Maestro, lei è stato presidente dell’Anfols, l’associazione che riunisce tutte le Fondazioni Liriche italiane, quindi anche il tema dell’organizzazione della lirica nel nostro Paese l’ha vissuto in prima linea.

Le Fondazioni Liriche non hanno mai avuto un orizzonte possibile, sono nate irrisolte e la loro crisi era inevitabile, non ho mai avuto dubbi. L’unica che poteva funzionare era la Scala, avendo una legge speciale e un contesto economico come Milano. Debbo osservare che tutt’oggi sulle Fondazioni Liriche assisto ad esternazioni di una imbarazzante ipocrisia: anche perché prima o poi tutti i nodi vengono al pettine.

Vorrei soffermarmi un attimo su questo aspetto: il contesto nel quale vivono i teatri. La sua osservazione su Milano, Maestro, è corretta, l’ho sentita ripetere da tutti in questi mesi, nel 2018 i contributi privati e i ricavi propri della Fondazione Teatro alla Scala sono stati pari al 65% delle entrate. La stessa Corte dei Conti ha sostenuto che è difficile valutare quest’ultima con i medesimi parametri applicabili alle altre Fondazioni Liriche, che per la sua posizione a livello internazionale può fare affidamento su un afflusso di contributi privati e sponsorizzazioni difficile da immaginare per gli altri Teatri. Tuttavia, mi convince parzialmente. Il Teatro San Carlo, ad esempio: Napoli non possiede il bacino economico e industriale di Milano, ma la quantità di ricchezze ambientali e storiche dell’area partenopea sono forse meno appetibili per essere associate a sponsor internazionali? Oppure, Il Maggio Musicale e Firenze, la Toscana, il Teatro Massimo di Palermo e la Sicilia…

Credo che i Teatri siano lo specchio della incapacità storica italiana di valorizzare il proprio patrimonio. Se Napoli o Firenze o in Sicilia, ma potremmo aggiungere altri esempi, potessero perseguire una strategia di valorizzazione turistica e culturale, sicuramente anche la situazione dei Teatri sarebbe diversa. E’ un problema nazionale. Per un Paese come l’Italia il patrimonio artistico, culturale e paesaggistico dovrebbe essere il motore dell’economia tutto l’anno. L’evoluzione del mondo, se così si può dire, ha messo maggiormente in evidenza il degrado della classe dirigente in Italia, la sua incapacità di affidarsi a competenze per affrontare i problemi. Con questo, possiamo dire che la condizione dei Teatri italiani rientra in una caduta di qualità più generale della politica italiana.

Parliamo dei lavoratori dello Spettacolo.

Sono vittime di ingiustizie terribili. Pensiamo al fatto che la stragrande maggioranza non ha un contratto fisso. E’ costretta a lavorare senza certezze. Tutti quelli che non hanno nessuna tutela sono trattati in modo indegno, eppure siamo riconosciuti nel mondo come il paese del bel canto. E’ avvilente constatare la mancanza di solidarietà, anche sotto il punto di vista semplicemente umano: l’aspetto più macroscopico è la preferenza che viene accordata, anche in questo periodo di crisi, per gli stranieri a scapito degli artisti italiani. Certamente ci sono le star straniere, ma anche in Italia abbiamo artisti validissimi soprattutto per il nostro repertorio. Si chiamano a dirigere i Teatri persone che non conoscono neppure l’italiano, per i quali inevitabilmente una Tosca con l’accento russo o anglosassone non fa nessuna differenza

E il motivo qual è secondo lei?

Molto semplice. Tranne qualche rara eccezione, come la nomina di Meyer alla Scala che stimo molto, è la riconoscenza per i favori che hanno fatto prima di andare in pensione nei loro Paesi a chi comanda in Italia. Nel proprio paese non possono più lavorare per raggiunti limiti di età, e così vengono in Italia, ovviamente non vanno in Germania. Aggiungerei poi, anche questo: sono puntuali nel servire chi comanda, fanno quello che viene loro ordinato, e così il cerchio del sistema politico di sottogoverno nella lirica italiana si chiude.

Negli altri paesi, invece?

Non scherziamo, negli altri paesi il rispetto verso il Teatro, verso queste istituzioni è sacro. Mentre in Italia il Teatro lirico sembra essere diventato un giocattolo, un posto dove si consumano i peggiori scambi di ogni genere.

In passato non era uguale?

Anche se nel passato abbiamo potuto avere momenti di eccellenza come quello di Carlo Fontana alla Scala, è sempre stato così: comunque, mai come adesso, in una forma tanto generalizzata e diffusa, e soprattutto nella pressoché totale indifferenza di reazione pubblica e politica. Penso alle scelte fatte senza competenza, alla selezione dei cantanti, alle scelte artistiche e vocali, registiche, dei direttori d’orchestra, dei sovrintendenti senza qualifica, dei direttori e consulenti artistici, dei direttori musicali.

A quando farebbe risalire questa curva discendente?

All’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica. Che ha coinciso con la scomparsa della politica vera e dei partiti, i quali avevano molti difetti ma non erano quello che oggi abbiamo di fronte, cioè comitati d’affari. Una curva della qualità musicale che gli amanti dell’Opera hanno sofferto sulla propria pelle. Mentre per il grande pubblico è facile disabituarsi alla qualità, come è accaduto per la televisione: se la TV trasmette solo schifezze, il pubblico alla fine si adegua. Ma questo, in fondo, riguarda il Paese, il decadimento generale di quest’ultimo quarto di secolo in ogni campo della vita nazionale, al quale pare che nessuno riesca più ad opporsi

Lei, Maestro, è anche docente. Come riesce a conciliare questa sua lettura che condivido, con gli studenti che ha di fronte?

Con grande imbarazzo. Ho sempre sostenuto la necessità di risolvere l’assenza totale di una formazione musicale: per quale motivo non si deve educare all’ascolto nelle scuole? E com’è possibile che non si rendano conto di come l’educazione debba tendere ad una qualità totale? Ai miei studenti di composizione che hanno tutta una vita davanti, tenuto conto di questo quadro e di come in Italia vengono trattati la cultura, la musica e gli artisti, non posso che dire di andarsene, l’Italia non ha un futuro. Nessuno dei miei studenti avrà mai le occasioni che ho avuto io, cioè la mia generazione, mentre altrove si può, in Cina, in Nuova Zelanda, in Giappone, in Australia. Non è facile, me ne rendo conto, ma l’Italia è un paese malato: senza segni che facciano intravvedere una guarigione, seppure lenta. Guardi cosa è accaduto in questi mesi di pandemia: è un peccato che la crisi non abbia fatto venire in mente di cogliere l’occasione forzata dell’impasse per rivedere il sistema organizzativo dei Teatri; per approfondire, per studiare nuove soluzioni, per interrogarsi sull’Opera contemporanea, per realizzare qualcosa di nuovo. In Italia, neppure le sciagure riescono a servire da lezione.

(foto: fonte Marco Tutino https://marcotutino.it/foto-e-video/ )