Camus, l’attesa della felicità e la scuola in-attesa

di MASSIMO GARGIULO – Le scuole riapriranno a settembre e allora ci sarà l’emergenza, con la necessità di ripartire in qualsiasi condizione.

La pandemia, con il lockdown, diede lo scorso anno un duplice stimolo alla lettura: da una parte essa poteva divenire un riscoperto strumento per riempire le lunghe ore sottratte al lavoro da trascorrere al chiuso delle case, dall’altra si rispolveravano i brani più celebri della letteratura che avevano a che fare con la peste: rimanendo ai nostri orizzonti, Tucidide e Lucrezio, per i più accorti Paolo Diacono, Boccaccio, Manzoni e così via. Si aveva l’impressione che i facili collegamenti tra il passato e il presente potessero fornire indicazioni utili, e magari che quella bellezza di pagine pur drammatiche potesse nutrire spiriti abbattuti dal nuovo contagio.

Tra le opere tornate in voga, che a dire il vero nel mondo scolastico hanno goduto di una fortuna ininterrotta e non legata ai fatti degli ultimi due anni, vi è La peste di Albert Camus. Quest’opera, oltre al valore che ha in sé, offre una serie di spunti di grandissimo interesse per la situazione contemporanea e, come avviene con gli autori di valore, è la ricerca sulle reazioni psicologiche che le pandemie attivano a essere, sin da Tucidide, l’elemento che più interroga il lettore dei nostri giorni.

Abbiamo tanto sentito dibattere recentemente del concetto di libertà, che secondo alcuni è limitato da possibili misure come quelle relative al green pass o agli eventuali obblighi vaccinali, e con facilità si sono rievocate parole che in Italia hanno avuto purtroppo ben altra storia e concretezza, come dittatura. Tra le realtà coinvolte vi è la scuola che, nella volontà – a parere di chi scrive giustissima – di riaprire in presenza, viene da alcuni equiparata al mondo della sanità per via del contatto costante con il pubblico. Rispetto alla obbligatorietà dei vaccini, si assiste alla medesima inconsistenza delle dichiarazioni che caratterizza comunemente le (non) politiche scolastiche: dire e smentire è tutt’uno. Personalmente, e lo dico da vaccinato, credo che anche in questo un percorso di consapevolezza e convincimento personale sia preferibile alle imposizioni. Senza contare che agli studenti andrebbe in ogni caso garantito il diritto allo studio e che le proposte di trasferire o indirizzare ad altro incarico eventuali insegnanti no vax sono, per chi conosce questo mondo, del tutto inattuabili: non assumerebbero mai i sostituti in un sistema che già di per sè mantiene più di centomila incarichi annuali precari.

Nel leggere Camus c’è un passo (pp. 222-223 dell’ultima edizione Bompiani) che mi pare si inserisca alla perfezione in questo quadro. Uno dei personaggi, Rambert, ha tentato di fuggire dalla città chiusa per raggiungere la moglie a Parigi, non riuscendovi al primo tentativo. Quando si presenta la concreta possibilità di raggiungere lo scopo, egli non si sente di lasciare chi sta lottando contro la peste, scatenando la reazione del protagonista, il medico Rieux, il quale gli ribatte che non vi è alcuna vergogna nello scegliere la felicità. Rambert risponde: “Ma forse c’è da vergognarsi a essere felici da soli”. Insiste poi nel chiedergli perché lui e gli altri scelgano di rimanere e fare ciò che fanno per salvare i malati e il medico ammette di non saperlo: “Non c’è niente al mondo per cui valga la pena distogliersi da ciò che si ama. Eppure io stesso me ne distolgo, e non so dire perché… Non possiamo contemporaneamente curare gli uomini e sapere. Quindi occupiamoci di curare gli uomini il più in fretta possibile”.

Il blocco che impedisce a Rambert di cercare la felicità personale dovrebbe essere la lezione per chi, la larga maggioranza, percepisce le misure di contenimento del contagio come un grave attacco alla propria libertà, che a volte si riduce miseramente all’impossibilità di godere degli spazi interni di un locale, avendo magari a disposizione l’esterno. Capita spesso quindi che sia considerata dittatura una limitazione alla possibilità di consumo, per persone che per il resto sono disposte a derogare a qualsiasi meccanismo di tutela su sé e la propria privacy. Diverso è il caso, ma molto meno numeroso, di quanti sono ideologicamente contrari ai vaccini, alle terapie mediche come unico strumento contro la pandemia, e vivono coerentemente tutti gli altri aspetti della propria vita. Io, da insegnante, ho scelto di vaccinarmi proprio perché, pur con tutti i miei dubbi sui vaccini e la gestione complessiva del covid, come Rambert mi sarei vergognato a perseguire una mia visione personale avendo a che fare quotidianamente con decine di persone nelle aule in cui svolgo il mio lavoro. Certo, ho ingoiato la rabbia di chi sente di fare il suo avendo intorno un sistema immobile, in perenne attesa, che non ha voluto ridurre il numero di ragazzi che avrei avuto negli ambienti di sempre, o migliorare i trasporti. Più a larga scala, la rabbia di chi sente che le misure prese sono sempre compatibili con quel sistema macro-economico che non è certo estraneo all’insorgere delle pandemie e all’indebolimento delle istituzioni che dovrebbero saperle arginare, e non solo curare.

Per l’ennesima volta, a noi che operiamo nella scuola, è stato chiesto di non sapere. Il Ministro non sa, come non sapeva Azzolina e gli altri prima di loro. Sapere equivale a contare e quindi chi sa è il Ministro dell’economia, che sulla scuola impone il rigore di sempre, quello che la pone in una condizione di perenne attesa. Ci è stato chiesto, come fa Rieux, di non sapere, ma curare, continuare a curare. È quello che capiterà tra poche settimane, quando l’inizio dell’anno giungerà paradossalmente inatteso alla scuola in attesa e allora ci sarà l’emergenza, con la necessità di far partire in ogni caso l’anno, in qualsiasi condizione. Non sapremo e cureremo. Non ci sarà felicità per cui provare vergogna come Rambert; per noi e gli alunni quella sarà, ancora, dietro il muro costantemente presidiato dalle guardie cittadine.