di GIANCARLO ALTAVILLA – All’accusa di avere rubato il Duomo, consiglierei di scappare, potresti vedere la galera prima di avere giustizia.
Dopo aver progettato una nuova auto da Formula 1, si cerca il miglior pilota per portarla al traguardo.
Dopo aver selezionato il migliore allenatore sportivo, si cerca di affidargli la migliore squadra per vincere il campionato.
Dopo aver scritto la più bella sceneggiatura e aver individuato il migliore dei registi, si cerca il cast in grado di completare la magia del cinema.
Per la Giustizia non funziona così.
Lì, per garantire l’efficienza e la celerità del servizio, basta maneggiare (più o meno abilmente) un po’ di norme e sapientemente dichiarare che la riforma è fatta. Dal 2008 ad oggi sono circa una trentina le riforme del sistema processuale penale, e non meno sono quelle della giustizia civile: tutte immancabilmente tese a garantire ‘il giusto processo’; tutte inesorabilmente inidonee ad accelerare il così detto corso della giustizia.
Perché? Metaforicamente, perché per vincere la corsa non basta una macchina veloce, ci vuole il pilota preparato; per conquistare lo scudetto, è fondamentale la bravura dell’allenatore, ma ci vuole una squadra di giocatori bravi, allenati, e che ci credono. Un bel film è la sintesi della sceneggiatura, della regia e della recitazione. Fuor di metafora, non è la riforma del rito processuale (penale e non solo) lo strumento per superare l’atavica, sonnolenta e spocchiosa inefficienza della giustizia italiana.
Il rito del processo è fatto di adempimenti (istanze, memorie, deposito di atti etc.), di udienze e di decisioni, scanditi da scadenze e tempi prestabiliti. Se si mettono in fila le fasi del rito siccome scritte nel codice, il processo è lineare, breve.
È quando la Giustizia indossa la toga, che cominciano i problemi.
A fronte della ferrea perentorietà dei ‘termini a difesa’ (tanto per dirne una: se non si deposita la lista dei testimoni entro una certa data, non sarà più ammessa la loro escussione), i tempi processuali del servizio pubblico si dilatano inesorabilmente. Essi non mai perentori, diventano più gentilmente ordinatori (ovvero, si trasformano in mere sollecitazioni all’adempimento, senza conseguenze in caso di violazione). E tale rinuncia al rigore dei tempi del processo riguarda tutto il rito: il calendario delle udienze (proiettato nella dimensione del lustro), le decisioni endoprocessuali (spesso assunte in tempi indecenti), le comunicazioni ex officio (sempre lente, spesso sbagliate nella individuazione del destinatario), l’acquisizione di perizie (i cui tempi sono sovente prolungati sine causa), la redazione della sentenza (che costringe all’attesa inerte), etc.
Insomma, la giustizia dei codici è una cosa, quella dei tribunali un’altra.
Ciononostante, sui codici ogni ministro (piccolo, medio e grande) esercita la sua missione riformista; sull’andazzo dei tribunali, invece, non si registra nemmeno il tentativo di un intervento correttivo e, giungo a dire, moralizzatore. Anche per il servizio giustizia non si può sottacere la solita, sempiterna questione delle risorse insufficienti, materiali e professionali, ma questa criticità non è la risposta alla inefficienza del sistema.
La giustizia è un servizio esentato da qualsivoglia controllo di produttività, dalla benché minima analisi della qualità. Chi ‘fa giustizia’ è l’ultimo oracolo della società moderna, al quale è lecito domandare verdetti, ma dal quale non è dato di pretendere resoconti.
Quando un processo d’appello sbugiarda la sentenza del primo grado, il commento è: la giustizia ha funzionato, perché ha rivisto e corretto un responso ingiusto.
Quando la Corte di Cassazione annulla la decisione resa sul processo d’appello, sui giornali si legge che è tutto da rifare: il lavoro dei magistrati è cassato, con l’unico effetto che il servizio viene nuovamente affidato al medesimo sistema, perché, stancamente e inefficientemente, si eserciti di nuovo.
Mi chiedo: ma le ragioni di una sentenza errata, di un processo mal celebrato e lento, di condanne ingiuste, di incriminazioni sbandierate e poi ritenute prive di fondamento, non rappresentano un elemento del servizio giustizia su cui lo Stato dovrebbe elaborare un sistema di sistematico accertamento, contestazione e sanzionamento?
Negli anni dei miei studi del diritto, circolava questo aneddoto. Il professore di procedura penale parlando ai suoi studenti delle regole del processo, segnalava la sua farraginosa lentezza: se accusassero mio figlio di aver rubato il duomo di Milano, il mio primo consiglio di avvocato difensore sarebbe quello di scappare, perché prima che la giustizia accerti l’impossibilità di aver commesso quel furto, è possibile che la galera gli apra le sue porte.
Un’esagerazione? Credetemi, no.
E allora, al servizio giustizia è necessario imporre (non sollecitare, imporre) tempi certi e celeri, indagando sistematicamente anche la quantità e la qualità del lavoro svolto dai magistrati, perché è lì che si annidano le vere ragioni della lentezza dei riti. Non ho fatto in tempo a rendere edotta la ministra in carica di queste mie riflessioni e, ormai, per questo governo la riforma della giustizia è fatta. Aspettiamo la prossima, chissà.
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Giancarlo Altavilla è avvocato amministrativista, cassazionista, professore a contratto all’Università di Pisa