La stanchezza delle parole: dalla scuola al Qohelet

di MASSIMO GARGIULO – Una selva di parole asfissiante, inestricabile e oscura, incapace soprattutto di terminare un discorso

Nel sistema istruzione stiamo vivendo una situazione paradossale. Da più parti si è notato, e lo si è fatto anche qui, che mai come in questa fase il dibattito pubblico si è incentrato sulla scuola. Da marzo in poi, dall’avvio cioè della didattica a distanza, si sono espressi addetti ai lavori, giornalisti, intellettuali di varia natura ed estrazione; inoltre, come poche altre volte era capitato, i genitori sono riusciti ad acquisire un notevole protagonismo nei media. Di meno, a parte qualche eccezione riservata ai presidi, i diretti interessati, vale a dire studenti, insegnanti, personale ATA. Oltre alla emergenza, che ha prodotto in brevissimo tempo una situazione del tutto nuova e complessa da gestire, ciò è stato innegabilmente dovuto anche all’apporto dato dalle molteplici dichiarazioni della Ministra Azzolina, molte delle quali hanno a loro volto determinato reazioni ulteriori, non di rado marcate da un sarcasmo per lo più giustificato.

L’altro troncone del sistema invece, l’università, è rimasto nell’ombra, in disparte, poco se ne è parlato e poco se ne sa. Questo è dovuto senz’altro alla diversa attitudine dei due ministri che dividono il dicastero di Viale Trastevere, con un Manfredi poco incline all’incessante profluvio di dichiarazioni che caratterizza la sua collega, ma non solo: si ha l’idea, sbagliata, che il mondo accademico possa funzionare per gli studenti anche senza presenza, con la sola trasmissione dei contenuti online. Si dimentica che i luoghi di formazione lo sono nel loro complesso, includendo nel processo la viva relazione con i docenti e i compagni di studio, ma anche con le strutture, le biblioteche, le città e i poli universitari. Senza contare la funzione fondamentale che questo insieme svolge per la socializzazione in una età in cui essa è indispensabile. Oltre a questa colpevole dimenticanza, a favore della sovraesposizione della scuola c’era la partita politica giocata da una Ministra debole per carenze sue, del partito a cui appartiene e del governo.

La scuola, indipendentemente da un reale e competente interesse nei suoi confronti, è stato il tavolo su cui gettare tutte le fiches del rilancio di fronte alle famiglie e al paese. Il problema è stato proprio che si sono puntati soldi finti.

All’inizio dell’anno non c’erano insegnanti in numero sufficiente, non classi meno numerose né infrastrutture adeguate, e in parte la situazione è ancora questa. Al contempo, non vi è stato un adeguato potenziamento del trasporto pubblico, né dei servizi della sanità: ormai nelle scuole tracciare i contagi è impossibile e gli insegnanti di classi con alunni positivi sono messi in quarantena solo se non firmano la dichiarazione proposta dalla ASL di aver usato i DPI ricevuti (ma non sempre e non sempre DPI) e rispettato i protocolli. Se le strutture fanno nelle scuole tamponi alle classi in cui vi sono stati dei casi, i docenti ne sono esclusi. Di fronte a una curva epidemica in rapida risalita, la soluzione non è mai evitare le concentrazioni, ad esempio, con più bus o aule ed insegnanti, ma eliminare le persone che li riempiono.

È infatti di queste ore il DPCM, già anticipato da alcune regioni, che impone la Didattica a distanza almeno per il 75%. Altre parole ancora sulla scuola e anche queste, per prima cosa, non chiare se non contraddittorie. Regioni come il Lazio avevano appena decretato dal giovedì per il lunedì il 50%; ci siamo organizzati in tutta fretta, mentre la domenica arrivava la notizia del 75: Stato e regioni parlano parole diverse. Il primo inoltre gioca sull’ambiguità perché, in realtà, la formula è “almeno il 75%”. La traduzione, arrivando al successivo arrotondamento, è 100%. Ma come può un governo che ha detto di aver messo al centro la scuola, tornare dopo un mese alla DaD totale? Ecco allora che si nasconde dietro un “almeno”.

La sensazione che abbiamo addosso è quindi quella di una selva di parole asfissiante, inestricabile e oscura, incapace soprattutto di terminare un discorso. Tutto rimane, colpevolmente, incompiuto. Vengono in mente le parole di un libro della Bibbia che un grande studioso ha definito stravagante, il Qohelet, a tal punto non in linea con gli altri da aver incontrato grandi difficoltà per essere ammesso nel canone. È quello che inizia con il celebre versetto tradotto “Vanità delle vanità, tutto è vanità”. Uno degli argomenti centrali del libro, come ben spiegato in Italia da Paolo Sacchi, è l’impossibilità per l’uomo di conoscere il tutto. Egli ricerca, sa alcune o anche molte cose, ma poi si scontra con la propria finitezza. Nel tutto che egli non può com-prehendere vi è ovviamente anche Dio.

All’inizio del libro c’è una frase (1,8), che, non fosse per l’abisso che separa la sua poesia dalla squallida prosaicità che abbiamo descritto, ne ricorda l’essenza di un vaniloquio che rimane costantemente a metà. La traduzione a cui siamo abituati è: “Ogni discorso resta a mezzo, perché l’uomo non riesce a concluderlo”. Voglio invece proporre la resa letterale: “Tutte le parole sono stanche, l’uomo non riesce a parlare”. La sensazione che viviamo è proprio quella della stanchezza delle parole: tanto più diventano leggere perché vuote e irrisolte, tanto più i discorsi che compongono si rivelano tentativi solo abbozzati, mai conclusi.

Qohelet è anche il libro dell’altra celebre espressione “nulla di nuovo sotto il sole”, secondo una visione per cui tutto è già stato visto e torna uguale a sé. Ecco allora che i vortici di parole si rivelano un inutile “correre dietro al vento” che produce solo stanchezza, la stanchezza di parole che non danno mai compimento a ciò che promettono.

La cosa, vista dalla prospettiva con cui ho iniziato, assume una connotazione ancora più beffarda quando si pensi che il termine ebraico che significa “parola”, dabar, ha in sé una tale concretezza che può anche valere “cosa”, come alcuni interpreti intendono il versetto citato. Non ci si può augurare che anche per noi, prima o poi, le parole si mutino in cose.

(foto: katia – licenza pixabay https://pixabay.com/it/photos/albero-deserto-namibia-argilla-pan-64310/)