di GIANCARLO ALTAVILLA – Il sogno è creazione e l’utopia è speranza: rinunciarvi è un po’ morire, o un lasciarsi vivere
Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei la vita rifiuta. È un verso de La Divina Commedia, I canto del Purgatorio. Così Virgilio si rivolge a Catone Uticense per presentargli Dante, cercatore di libertà. Sono parole di giovinezza, che si studiano a scuola e si mandano a memoria, a volte inconsapevolmente. Rimangono nella mente. Intorno a loro, il ricordo dei significati reconditi, sottesi al breve verso dell’Opera divina, letto illo tempore, con enfasi dotta, dal professore del liceo.
I tempi della scuola sono ormai lontani, e i ricordi degli studi si perdono negli echi di tante altre pagine lette e studiate dopo, negli anni adulti. Chissà se la memoria m’inganna.
L’Uticense incarna la figura del difensore delle libertà politiche e repubblicane, per le quali morì suicida (piuttosto che piegarsi a Cesare). La libertà propugnata da Catone è un valore universale, un diritto degli uomini figli di Dio. E Dante esalta tale universalità, ponendo Catone l’Uticense a presidio del Purgatorio, ritenendo il suo suicidio (sempre contro Dio) insufficiente a ridurre la grandezza del suo gesto libertario.
I vaghi ricordi danteschi mi sono tornati alla mente guardando un film, uscito da qualche settimana su una piattaforma di cinema domestico: L’incredibile storia dell’Isola delle Rose. È il racconto di un fatto vero. E formidabile. Sono gli anni ’60, quelli del twist, del rock and roll, del design e dell’arte astratta; quelli dei fiori nei cannoni e dell’amore in vece della guerra E sono gli anni delle libertà. Nelle famiglie, nelle università e nelle fabbriche, gli italiani invocano la libertà di scegliere, di studiare e di affrancarsi dal giogo padronale. E nelle piazze gli italiani danno suono e colore alle nuove idee, manifestando, discutendo, partecipando. Sono giovani, sono ragazzi. E vogliono essere liberi. Nel Paese, dopo gli anni delle Guerre, gli adulti propugnano stabilità, ordine e pacificazione sociale; i giovani discutono di libertà, di diritti, di autodeterminazione dei popoli. Tra questi, un giovane ingegnere bolognese, Giorgio Rosa. È lui che ci regala l’incredibile storia.
Nella Bologna borghese e operosa, Giorgio Rosa sente la costrizione del vivere: i genitori stremati dal lavoro e dai sacrifici, le carriere lente e predeterminate, la omologazione dei desideri, lo Stato controllore, regolatore, onnipresente. La libertà è quella concessa dal sistema, troppo poco per dare risposta a coloro che rifuggono dagli schemi, dai passaggi obbligati, dalle scelte compiute da altri, per omologare tutti. Libertà va cercando, il giovane Giorgio. E non vuole contrapporla all’ordine costituito, no. Egli il nuovo mondo libero se lo costruisce, letteralmente. Con un amico progetta e realizza un’isola al largo di Rimini, subito oltre il confine delle acque territoriali italiane.
Pali e cemento, forza e tenacia bastano per costruire un’isola di 400 metri quadrati in mezzo al mare: il nuovo mondo, per un gruppo di amici, prima, e per tanti e tanti altri ragazzi, poi. L’Isola c’è, ed è uno Stato autonomo, libero e indipendente. Non nasce per occupazione o conquista, e non è una eredità.
L’isola è una scelta, il luogo di un patto sociale nuovo, a titolo originario, che non si contrae (tra parti contrapposte) ma al quale si aderisce liberamente. Giorgio Rosa, sognatore, romantico e visionario, progressista determinato e coraggioso, ha costituito un nuovo Stato di libertà, davanti al mondo e agli occhi incerti del governo italiano, che non sa cosa fare. Da ogni dove arrivano richieste di cittadinanza nell’Isola delle Rose, tanto piccola e vulnerabile in mezzo a tutto quel mare, e così grande da contenere il sogno di tanti. Quella Delle Rose è l’isola universale, presidio e baluardo di un mondo possibile, libero ed eguale, nuovo e diverso.
La storia finisce, come tutte le cose. Lo Stato italiano, più per paura che per autoritarismo, sconfigge i libertari, nega loro il sogno. Le onde del mare tornano a incresparsi là dove la libertà aveva trovato la sua piccola patria. E l’utopia? Rimane qualcosa dell’utopia del giovane Giorgio Rosa? Non lo so.
Gli anni di oggi sono assai lontani da quelli raccontati nel film, non solo cronologicamente, ma sentimentalmente. La libertà è data per scontata, e le rivendicazioni sociali sono di breve momento. Qui e ora è, per molti, il confine di tutto.
Ho la sensazione che le nuove generazioni abbiano perso la forza della contrapposizione, quella della rigenerazione, e che l’adeguamento e l’omologazione siano, spesso, le sole false virtù di un popolo che confonde la stabilità e l’ordine sociale con l’apatia e la rinuncia. Ogni generazione dovrebbe costruire il suo mondo nuovo, provarci almeno, in mezzo al mare, sui rami di un albero o all’ombra della luna. Cosa sarebbe l’uomo, senza i sogni e le utopie?
Il sogno è creazione e l’utopia è speranza: rinunciarvi è un po’ morire, o un lasciarsi vivere. Giorgio Rosa ci ha lasciato una bella storia di libertà, di sogno e di utopia. Il suo entusiasmo, la sua rivoluzione gentile, chissà, avrebbe fatto sorridere Lao-Tse, il taoista, di cui sovente ricordo a me stesso la saggezza di questo motto: quando mi libero di quello che sono, divento quello che potrei essere. Spero che molti giovani guardino il film e, cullati dalle vecchie canzoni suonate sull’Isola delle Rose, sentano che sta in ogni giovinezza l’orizzonte dei mondi nuovi.
Il trailer del film
Giancarlo Altavilla è avvocato amministrativista, cassazionista, professore a contratto all’Università di Pisa